di
Walter Riolfi
In soli tre mesi l’S&P 500 è salito del 26%, per le aspettative su tagli dei tassi, utili aziendali in ripresa e ottimismo politico. Ma l’economia americana rallenta
Tutto sta andando per il meglio. La guerra con l’Iran s’è conclusa nel migliore dei modi, le tariffe di Donald Trump non spaventano più, l’economia marcia a gonfie vele, gli utili societari sono in forte crescita e l’inflazione è pressoché domata. E, miracolo, anche la Fed dovrà smettere di remare contro e procedere al più presto a un taglio dei tassi, forse già a luglio, sicuramente a settembre. L’aveva detto il presidente Trump che era arrivato il «momento per comprare», e Wall Street ha obbedito crescendo del 26% in meno di tre mesi: un «rimbalzo storico» commenta il Wall Street Journal.
Di tutte le giustificazioni a sostegno di tanta euforia, nessuna è vera e solo l’ultima (la Fed) è parzialmente possibile. L’economia americana non versa in cattiva salute, ma sta rallentando e i dati reali (hard), così come gli indicatori che escono dai sondaggi (soft), sono al ribasso da inizio giugno. Negativo è anche il Citi economic surprise, finito ai minimi da 11 mesi, con un crollo che suggerirebbe recessione: invece segnala solo la leggerezza con cui gli strapagati analisti americani fanno previsioni economiche sull’onda del buon umore propagato da Fox News.
Utili in crescita
È vero che il pil del 2° trimestre dovrebbe crescere del 2,5% (annualizzato), così lo stima la Fed di Atlanta, ma, combinato con il calo dello 0,5% nel 1° trimestre, farebbe un +1% (semestrale, annualizzato), non lontano dallo 0,8-0,9% previsto per la «povera» Eurozona. In forte crescita gli utili societari si sono visti nel primo trimestre (+13,7%), ma le stime per l’intero anno sono state ridotte dal 14% di gennaio all’8,5% attuale (Lseg): cosicché l’S&P, a 6.270 punti, è oggi più caro di quanto fosse stato nell’euforia di febbraio, con un rapporto sugli utili 2025 di 23,8 contro i 22,2 di allora. E sui profitti societari, così come sull’inflazione e l’economia, pesa l’incognita delle tariffe che, in virtù di un processo psicologico, per cui una riduzione del male fa credere che tutto sia come prima, non sarebbero più un rischio. I dazi non saranno più al 50% minacciato ad aprile, ma al 15%, come stimano gli economisti, sono almeno quattro volte più alti di quanto si pensasse a inizio anno.
Columbia T. dice che ci vorranno circa tre mesi prima di vedere gli effetti delle tariffe, cosicché dovremmo attendere i dati di settembre per avere numeri attendibili sui flussi commerciali, le scorte e soprattutto sull’inflazione americana prevista (Sarasin) in rialzo di 7 decimali quest’anno. A maggio, i prezzi erano aumentati del 2,8% (Cpi) e potremmo vederli al 3,5% fra qualche mese, più o meno al livello stimato anche da Goldman Sachs.
Quanto al conflitto con l’Iran, ci sono forti dubbi che si sia concluso con una pace duratura. Il brusco calo del prezzo del petrolio, dopo la fiammata che l’aveva spinto a 79 dollari al barile, segnala solo lo scampato pericolo, ma, a 68 dollari, il Brent resta più caro dei 63 dollari d’inizio giugno.
Del resto, Wall Street non s’è mai curata delle tensioni geopolitiche. Durante gli 11 principali eventi, dalla prima guerra del Golfo al conflitto in Ucraina, sottolinea Matteo Ramenghi di Ubs, l’S&P 500 aveva in media ceduto lo 0,3% nella prima settimana seguita al conflitto, ma s’era ritrovato più in alto del 7,7% 12 mesi più tardi. È sorprendente come, dopo un pericolo reale o potenziale (una guerra, l’annuncio di dazi spropositati o semplicemente una fisiologica correzione dei mercati), Wall Street abbia reagito con clamorosi rialzi e nuovi record. È sempre stato così, dicono gli operatori. Ma queste reazioni sono diventate estreme dopo il 2009.
Il Buy the dip (compra sul ribasso) non è mai stato così proficuo come negli ultimi tre mesi (a parte l’eccezione del dopo Covid nel 2020) e si potrebbe pensare sia stato propiziato dalla irrazionale euforia dei soliti piccoli investitori. Forse propiziato, ma a ingigantirlo sono stati gli hedge fund che hanno comprato per 8 settimane di fila: acquistavano a Wall Street e vendevano in Eurozona, spiega JpMorgan. Compassati hedge fund ed emotivi piccoli investitori insieme a far incetta di azioni, perché tutto sta andando per il meglio, perché «Trump si tira sempre indietro» (acronimo «Taco») o per paura di perdere il treno del rialzo («Fomo»).
Turbo-tech
Hanno comprato di tutto, specie i titoli tecnologici (+42%), e specie la spazzatura i piccoli investitori: i cosiddetti meme stocks, i titoli con maggior scoperto e quelli ritenuti a buon prezzo, perché non fanno utili. Bespoke ha calcolato che le azioni di 858 società in profonda perdita dell’indice Russell 3000 sono salite del 36%, 12 punti più dell’indice. Anche un campione come Nvidia è volato (+68%): comprato da tutti, tranne dagli amministratori della società, ceo in testa, che a giugno hanno venduto titoli per oltre 500 milioni.
L’ultimo carburante del rialzo l’ha offerto la politica monetaria con la prospettiva di tre tagli ai tassi d’interesse quest’anno. È solo una speranza, non propiziata da Jerome Powell, che resta saldo nel valutare gli eventi, ma pretesa da Trump, che vorrebbe una Fed prona alla sua politica economica: tanto più dopo una legge finanziaria che farà lievitare il deficit federale di 3.300 miliardi in 10 anni. E, siccome la spesa per interessi già supera i mille miliardi, è necessario che i tassi scendano bruscamente, anche in maniera artificiosa. Oltre ai dazi, la nuova politica economica della Casa Bianca punta a far crescere l’economia più velocemente del debito (Scott Bessent). In questa equazione, tassi bassi e dollaro debole rappresentano due variabili fondamentali. I risultati sono assai incerti e non è detto che la ricetta possa piacere ai mercati. Per ora non se ne curano e nell’euforia i broker già stanno rivedendo al rialzo gli obiettivi dell’S&P e più d’uno addita l’indice a 7 mila per fine anno.
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22 luglio 2025
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