di
Valerio Cappelli
Il divo si racconta al Torino Film Festival: «Piangevo per qualsiasi cosa, Almodovar capì le mie sofferenze. Hollywood? Preferisco il teatro di Malaga. Intervista col vampiro? Il mio inglese pessimo peggiorò con i denti finti»
TORINO Antonio Banderas, premiato al Torino Film Festival, parla con sincerità disarmante dell’infarto che ha avuto nel 2017, e del suo film più personale (per il quale vinse a Cannes come miglior attore), «diverso da tutti quelli che ho fatto», Dolor y gloria di Pedro Almodóvar.
«È stato il mio ritorno a Itaca, mi sono sentito Ulisse. Due anni prima avevo avuto l’attacco di cuore che mi ha cambiato la vita: completamente. Ero ancora su quella scia emotiva. Nel film, che è una sorta di autobiografia ideale, Pedro rivive la sua infanzia, il rapporto con la madre, la scoperta del desiderio e le sofferenze dell’età adulta, il vuoto creativo. E il rapporto col dolore fisico. Io non mi rivedo mai, ma faccio un’eccezione a Torino».
Lei si rispecchiava come alter ego di Pedro?
«Sì, ho lavorato sulle sensazioni di chi mi stava raccontando parte della sua vita. Dopo l’infarto, molte cose sono sparite, mi sono focalizzato sulla famiglia, su mia figlia Stella, sugli amici. Pedro prima di girare reinterpretava il ruolo della madre ma anche del figlio, e diceva cose che solo lui poteva dire. In una scena dice: mamma, mi spiace non essere stato il figlio che tu volevi che io fossi. E non riusciva a pronunciarla, questa frase. Si emozionava tantissimo. Per me, era come tornare a decenni prima, all’inizio della mia carriera, al fianco di Pedro. È stato lui a fari debuttare, in modo casuale, al cinema. Io ero un attore di teatro, e al teatro adesso sono tornato».
«Dopo gli anni a Hollywood ho aperto un teatro a Malaga, la mia città. Ho 25 persone fisse, tra attori e tecnici, una compagnia no-profit, non sono mai stato così felice, di fare quello che mi piace. Da 3000 anni il teatro ha un potere catartico, è un santuario della verità, una semplice sedia può sembrare una poesia. Non parliamo di Intelligenza artificiale. Come regista mi interessano casi di mala giustizia: cosa puoi fare se sei sospettato ma da innocente, non hai un alibi e ti sbattono in galera?».
Come ricorda i giorni dell’infarto?
«Mi ricoverarono a Londra e mi misero tre stent alle coronarie. Non riuscivo a dormire, condividevo la stanza con una persona, eravamo separati da una tenda. Ricordo una straordinaria infermiera di grande esperienza che dopo l’intervento mi fece una domanda strana: credi nella cultura popolare? Non capivo. E lei: “Ti sei chiesto perché la gente dice ti amo con tutto il cuore, e non ti amo con tutto il cervello? Avrebbe più senso”. Aggiunse: “Il cuore è un magazzino di sentimenti; tu avrai un periodo difficile della vita”. Le chiesi, andrò in depressione? “No, sarai solo triste”. Quando mi dimisero, piangevo per qualsiasi cosa».
Allora aveva ragione l’infermiera.
«Era come se mi avessero tolto un lembo di carne. E così fu per Dolor y gloria. Con Pedro, sei la creta che lui modella, se arrivando sui suoi set sei troppo te stesso, non funziona, se ne accorge subito, un giorno mi ha detto: devi essere un nuovo te stesso per il personaggio. È come se qualcuno ti togliesse il tappeto dai piedi. Pedro ti reinventa: chiede, pretende. Devi essere umile con lui».
Lei fa sentire la Spagna così vicina a noi.
«Capisco il polso della gente, il ritmo, come vi lamentate. Come da noi in Andalusia. Andai giovanissimo a Venezia, a 25 anni, con Requiem per un contadino spagnolo. Ricordo che dalla finestra della sua camera d’hotel Adriano Celentano gettava secchiate d’acqua addosso ai giornalisti. L’ultima volta tornai con Official Competition, sulle assurdità degli attori, ma si parla soprattutto di stupidità. La competizione esiste solo con attori non di talento».
Non ce l’hanno fatta a farla diventare americano.
«Il cinema europeo è artigianale, non è una fabbrica, come a Hollywood. In Intervista col vampiro avevo magnifici attori accanto, Tom Cruise, Brad Pitt. Il mio inglese all’epoca pessimo peggiorò per i denti da vampiro, mi mangiavo la lingua, mi mordevo. Ma riuscii a cavarmela».
Ora ha girato il film sullo chef Anthony Bourdain, che nel 2018 si suicidò.
«Si intitola Tony, io sono il proprietario del ristorante sulla spiaggia in cui lui, da giovane, imparò a cucinare. Siamo stati un mese e mezzo a Cape Cod, la sera quando tornavo a casa puzzavo di pesce dalla testa ai piedi e restavo sotto la doccia per mezz’ora».
22 novembre 2025
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