Convinto che Roma lo avrebbe accolto con affetto, Federico Fellini aspettò l’autobus cullato dall’ebbrezza della prima volta. Il traffico e i rumori non avevano niente a che vedere con quelli di Rimini, ma nell’arbitraria lotteria delle impressioni iniziali, il colore del cielo e i monumenti gli diedero comunque l’illusione di aver acquistato il biglietto vincente. Avrebbe dovuto raggiungere una pensioncina dalle parti dell’Esquilino e senza sapere come si ritrovò dall’altra parte della città. Aveva tempo da perdere, non si preoccupò. Scortato dai sogni stipati in valigia guardò ancora una volta verso l’alto e vide due ragazzini sorridere e ritrarsi all’improvviso per evaporare all’ombra di un cornicione, poi sentì qualcosa di umido e si rese conto che l’innocenza non esiste. I due gli avevano sputato in testa perché Roma, come sa uno degli ultimi veri testimoni viventi delle relative evoluzioni locali, è anche questo: insensatezza e trivio.

Carlo Verdone ha compiuto 75 anni qualche giorno fa. Con Fellini armava lunghe conversazioni telefoniche al limitare dell’alba. Federico dormiva poco e si infilava spesso in una volante della Polizia per vedere la notte da un altro punto di vista. Tornava con i primi chiarori, faceva scorta di cibarie nel solito bar e poi una volta rincasato chiamava Verdone. Carlo accoglieva vecchie storie romanzate come questa e infilandosi con maestria nelle pause della facondia domandava al grande romagnolo dei suoi film cercando di carpirne segreti e contesto. L’altro, smarrito, spesso non sapeva rispondere e restituiva l’impressione di non essere più padrone delle sue creazioni e di non capire più – o non voler capire, che è un po’ la stessa cosa – il mondo che aveva di fronte. Una debolezza a cui Verdone non ha mai dato la destra. Sociologo senza cattedra, medico senza camice, psicoanalista senza lettino, Verdone è tante cose senza mai esserne soltanto una. È rimasto in contatto con ciò che lo circondava senza erigere una gabbia o un campo minato attorno alla nostalgia. Le cose cambiavano e Carlo, con pazienza, le raccontava. Gli elementi si combinavano e Carlo l’alchimista non ne traeva mai una pozione utile al moralismo. Attore e autore, scrittore e regista, pedinatore, come gli piace che si dica, dei nostri vizi, delle nostre miserie, del nostro carattere più profondo. Esegeta del linguaggio e fotografo di nuvole perché nel movimento irrituale e imprevedibile sosta ciò che ci tiene vigili e scongiura il rischio di parlarsi addosso. Verdone non lo ha mai fatto.

Al suo posto, sullo schermo e sul palco di un teatro, hanno parlato i suoi personaggi. Eravamo noi? Era lui? Il dubbio resta ed è il manifesto dell’efficacia del processo. Verdone ha attraversato i decenni con la grazia curiosa di chi più che insegnare desiderava imparare. Lo ha fatto senza negarci uno specchio in cui potersi riflettere perché forse, lo scopo ultimo, era guardarsi dentro. Il Verdone emigrante che scende dalla Germania a Matera per compiere il suo dovere di elettore disegna un breviario dei vizi nazionali che per attualità non teme confronti. Il Verdone che osserva i propri compagni di scuola e scorge nella caduta delle illusioni un indizio di pastorale italiana somiglia a un apologo letterario. Il Verdone che mette in scena se stesso e si scopre così reale da aver paura della sua stessa immagine spaventa chi pensa di averlo capito senza aver capito nulla. Il Verdone caustico, quello sentimentale, l’uno, Verdone e centomila. A questo signore educato e gentile, destinato a essere di tutti del tutto inadatto a preservare un angolo di requie dobbiamo molto.

Vorremmo abbracciarlo, ma ci tratterremo. Come fece lui con Gian Maria Volonté quando lo inseguì, era il ’71, per esprimergli ammirazione. Volonté lo ringraziò. Non si strinsero neanche la mano, ma sorrisero entrambi. Un tempo il tutto era fatto di niente.

Illustrazione di Jean Michel Tixier