Un’ora e trentotto minuti. Una durata normale, per un match di tennis. Forse anche breve, per una competizione come la Coppa Davis.
Ma un set?
Ma un set che può mandarti in finale per il terzo anno consecutivo?
Flavio Cobolli, alla fine, non ha vinto una partita: ha vinto una maratona, al di là di quelli che siano gli effettivi chilometri percorsi nella sfida decisiva della semifinale, vinta contro Zizou Bergs.
Dentro o fuori per il Belgio, già sotto di un punto dopo la sconfitta di Raphael Collignon contro Matteo Berrettini. Ancor più dopo che Cobbo ha portato a casa il primo set.
Questa, però, non è una competizione come le altre. Si gioca a tennis, il più individualista degli sport, ma si gioca in squadra, portando sulle proprie spalle il risultato di tutti.
Bergs è già un uomo Davis a tutti gli effetti, ma Cobolli vuole imparare a diventarlo, in un’Italia priva dei suoi top 10, che gli ha affidato il ruolo di singolarista numero 1, nella stagione che lo ha visto alzare al cielo il suo primo titolo ATP 500 ad Amburgo e lo ha visto raggiungere i quarti di finale di Wimbledon, nel tempio del tennis sull’erba.
Un peso, forse. Una responsabilità, di certo. E nel momento più complicato, è venuto fuori tutto quello che aveva dentro: passione, talento, l’intenzione di non mollare ereditata dal suo idolo, Novak Djokovic.
E come il Djoker, dopo un estenuante tie break da 32 punti con 7 match point a testa, ha dato sfogo alle proprie emozioni con una delle esultanze iconiche dell’oro Olimpico di Parigi 2024, quella maglia strappata “come Hulk”, non prima di aver consolato l’avversario.
“Potevo esserci io in quel momento, ho provato a dargli una parola di conforto anche se è inutile”.