La storia di Nino D’Angelo diventa memoria collettiva: un artista che ha saputo superare mode, pregiudizi e confini, restituendo a Napoli e al suo popolo una voce autentica e rivoluzionaria, ora raccontata con lo sguardo più intimo possibile, quello di un figlio

Forse la Storia di Napoli è un tema letterario che non si porta più, ma se a qualcuno balenasse l’idea di scriverne una nuova, succinta e doviziosa tipo quella di Antonio Ghirelli, dovrebbe metterci sicuramente Nino D’Angelo nel capitolo della contemporaneità. Come Totò e Troisi andarono oltre il cinema e Maradona oltre il calcio, lui è andato oltre la musica e le mode, oltre snobismi e populismi attraversando più di mezzo secolo in cui è spiaciuto e piaciuto agli intellettuali, è stato amato anche lontano dal Vesuvio e consacrato come icona sui murales. Ha continuato a scrivere e cantare in una lingua che ora è facile portare a Sanremo, ma quando lui lo fece sembrò una provocazione (e lo fu).

Perciò “Nino. 18 giorni”, il documentario biografico presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, nelle sale dal 20 novembre, non è soltanto un film ma una risorsa per la memoria partenopea con la cifra di un figlio regista che racconta assieme al padre sé stesso. Toni D’Angelo, che ha diretto numerosi lungometraggi, segna anche il suo esordio da produttore con quest’opera in cui ricompone il puzzle della memoria famigliare dopo averne maneggiato per una vita i tasselli sparsi.

 

Perché a questo documentario non aveva pensato prima? E perché nessuno prima ci aveva pensato?

Ci avevano pensato diversi registi, ma i progetti si arenavano perché mio padre rigettava ogni narrazione cinematografica che prevalesse sulla realtà biografica. Non voleva colorire di oleografismo la sua infanzia povera né la Napoli di quegli anni. Perciò si convinse che solo io avrei potuto raccontarlo senza manipolarlo, ma mi rifiutavo nel timore di realizzare un prodotto agiografico, finché un giorno mi sono ritrovato tra le mani certe riprese domestiche che avevo fatto per me stesso da ragazzo e ho capito che potevo partire da lì. Entrando nella sua vita in punta di piedi, magari girando con lo smartphone, in una intimità in cui ritrovavo anche me. La cosa più difficile, quando si racconta un genitore, è rimanere sinceri. Per riuscirci mi sono imposto uno sguardo oggettivo, poi è subentrata la mia voce narrante.

 

Cosa ha scoperto di Nino D’Angelo che non sapeva?

Conoscevo le sue radici, che sono anche le mie, però non fino in fondo. Quando siamo andati nel quartiere dov’è nato, a San Pietro a Patierno, ha rincontrato le persone con cui giocava da bambino e mi si è rivelato il piccolo Gaetano sconosciuto. È stata un’emozione forte visitare i luoghi dove lui può andare solo di notte, altrimenti la folla rivoluziona le strade appena lo vede.

 

Ha montato filmati d’epoca in formati diversi per restituire una città in cui Nino era già famoso e che lei per motivi anagrafici non aveva conosciuto. Quanto la vede diversa dalla Napoli attuale?

Era bella come adesso, anche se non era una meta turistica e soggiaceva a una narrazione a tinte fosche. Malgrado tutto però ho l’impressione che la gente fosse più felice, che anche i poveri fossero più felici dei poveri di oggi. Un grande avvenimento collettivo, come il primo scudetto del Napoli, trascendeva il valore sportivo. Ora abbiamo tutti gioito per il quarto scudetto ma è incomparabile ai significati di quello, che fu un evento politico. Negli anni Ottanta personaggi come Maradona, Troisi e Nino D’Angelo si assumevano la responsabilità di difendere e rappresentare un popolo. Ho letto vecchi articoli di una cattiveria unica nei confronti di mio padre, del Sud e dei napoletani. Dovette fronteggiare i pregiudizi in un silenzio assordante. Fu una rivoluzione di cui non si ha più idea. Adesso nella musica si guarda giusto al sold out, mi sembra tutto più piatto e non soltanto a Napoli: non vedo figure in cui rispecchiarmi o in cui possano farlo i miei figli. Da vecchio appassionato di rock, non troverei più una band o un artista con cui identificarmi, forse l’ultimo a rappresentare un certo tipo di condivisione con il pubblico è stato Lindo Ferretti. Poi è finita. È cambiata anche la strada del successo: non c’era un X Factor che ti cuce il progetto addosso, le cose succedevano grazie al talento individuale e a un po’ di fortuna. Che mio padre desse voce con le sue canzoni a una classe sociale e vendesse milioni di dischi non fu frutto di pianificazione ma un fenomeno bello, naturale, reale.

 

Però fu costretto a lasciare Napoli, con tutta la famiglia, a causa delle minacce camorristiche. Nel documentario lo racconta per la prima volta nei dettagli.

Io stesso ne presi coscienza quando ero già grande dai discorsi colti in casa a Roma. Prima pensavo ce ne fossimo andati perché la popolarità lo opprimeva. Solo durante il documentario ho appreso i particolari. Lui non ne aveva mai parlato volentieri per proteggere l’immagine di Napoli.

 

Cosa toglie e cosa dà a un artista la distanza dalla sua città?

È come in un cinema: per vedere meglio ciò che avviene sullo schermo non devi sederti in prima fila. Se stai più indietro hai la visione ideale. Oggi nella narrazione di Napoli c’è ancora tanta cartolina o se ne raccontano singoli pezzi. Ci vorrebbe uno sguardo obliquo, trasversale, che includa tutti i differenti aspetti.

 

Con quale spirito congeda questo documentario?

Di una scoperta. Il documentario è una forma di cinema in cui preferisco alla figura del regista maestrino quella del regista primo spettatore, che condivide con il pubblico quanto nemmeno lui sapeva quando ha cominciato il lavoro.