La prima volta che li ho visti c’era ancora Cristiano Dalla Pellegrina, futuro batterista dei Negrita. Poi successe di tutto, con Vai Bello e soprattutto con Better Mad Than Dead a far venir fuori loro detrattori da qualsiasi parte. Credo fermamente che a un certo punto ci fosse la necessità di ridimensionare gli Extrema, e spiegare al pubblico italiano, con ciò, che non erano i Metallica o i Pantera italiani, ma semplicemente un buon gruppo che aveva avuto il suo momento di gloria (l’apertura per i Metallica e, appunto, i primi due album). E che non li potevamo caricare eternamente di sproporzionate responsabilità.
Quella spiegazione fu Set the World on Fire, il quarto disco di un buon gruppo italiano, che per anni aveva goduto di una visibilità mediatica sino ad allora negata ai Death SS e ad altri. Merito loro, perché sicuramente erano andati a cercarsela con tutte le loro forze, pagandone alcune conseguenze. Vietati i paragoni con Money Talks e gli altri classici dai primi due, ché sarebbe stato controproducente. Arrivò un nuovo batterista e fu ben azzeccato, perché, se l’album aveva l’ingrato compito di riportarci all’energia precedente le loro sperimentazioni commerciali, e di invocare di nuovo il termine thrash metal, grazie a lui fu doppiamente possibile. Paolo Crimi era il suo nome, oggi non c’è più nemmeno lui.
L’album soffrì delle lungaggini tipiche dell’epoca, con troppe tracce che non gonfiarono tuttavia il suo minutaggio, assestato attorno ai tre quarti d’ora. Una mezz’ora slayerana avrebbe risolto ogni problema con i potenziali filler. In effetti Set the World on Fire reggeva fino circa alla traccia sei o sette, con un’intro che mi ricordò vagamente i Metallica nel 1988, due pezzi molto buoni, soprattutto Second Coming, e poi un ritorno di fiamma di quelle sonorità ruffiane tipiche delle annate recenti. Adorabile anche Malice and Dynamite – immenso il suo riff d’apertura – dopodiché un tentativo di innescare le dinamiche funk/groove degli esordi senza però disporre della sezione ritmica più adatta allo scopo. 
Il pezzo sfacciatamente nu metal ahimé non mancò, era la title track, che tutti all’acquisto avranno collegato agli Annihilator, così per omonimia. Diciamo che a invecchiamento terminato, come per gli ottimi aceti balsamici firmati dal nostro Stefano Mazza, trovo Set the World on Fire il parto di un gruppo che ancora stava col piede in due staffe e che non rimpiangeva affatto le sperimentazioni, le modernità, i reiterati tentativi di esplodere nel mainstream o chiamateli come cazzo vi pare. Gianluca Perotti in questa sede se la cavò benissimo su ogni fronte, e francamente la macchina imbastita oggigiorno da Tommy Massara sarà ben collaudata, affidabile, longeva, ma gli Extrema che riconosco nel nome degli Extrema sono questi qua.
Credo infine che il successo postumo di album come questo, o come il successivo e più coeso Pound for Pound (molto Anvil, se vogliamo, come titolo) risieda nel fatto che a metà anni Duemila, e a sbronza Napster rientrata, i gruppi musicali si sentissero finalmente liberi di fare ciò che volevano. Niente più maschere, niente più irraggiungibili obiettivi da raggiungere; sull’altra faccia della medaglia si potrebbe dire niente più sogni, in un certo senso. Ma almeno noi, che un album lo ascoltavamo e lo portavamo a casa a caro prezzo, potevamo dire niente più incubi, perché tutto cominciò pian piano a prendere una direzione sì prevedibile, ma giusta. (Marco Belardi)
