Sono un fan del Boss, però ho vissuto l’attesa del suo biopic con un certo grado di disinteresse; un po’ per esorcizzare la paura di una possibile delusione, e poi perché Springsteen on Broadway – che consiglio senza riserve a chiunque – mi aveva già permesso di “visualizzare” alcune storie raccontate in questo film ma attraverso la voce del cantante, capace di rievocare il passato con un lirismo ineguagliato dall’opera di Scott Cooper (l’episodio del padre nel pub di Freehold scandisce bene il divario tra i due resoconti).

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Inoltre, avevo apprezzato molto la lettura di Liberami dal nulla di Warren Zanes, tuttavia non capivo come si potesse trarre un racconto tradizionale da un testo monografico su Nebraska, dove i riferimenti biografici emergono solo per argomentare o contestualizzare meglio l’analisi dell’album, evocando peraltro un periodo di profonda alienazione in cui Bruce faticava persino ad alzarsi dal letto mentre incideva il proprio capolavoro acustico.

Darkness on the edge of town

Sorprendentemente, però, la parabola della pellicola funziona bene ed è persino molto rispettosa della vita di Springsteen in quei mesi, fatta eccezione per la licenza poetica di una storia d’amore che aiuta a comprendere il blocco emotivo del cantante ma rappresenta anche l’elemento più “telefonato” di tutta la sceneggiatura. Certo, l’idea del libro di raccontare il personaggio solo attraverso il processo creativo di Nebraska si sposa meglio col rigore di un album così asciutto, e forse avrebbe risparmiato al film qualche deriva biografica troppo morbosa o patinata, come durante il flashback sulle note di My Father’s House.


Jeremy Allen White NON HA UNA SOMIGLIANZA SPICCATISSIMA CON SPRINGSTEEN, MA LA MIMICA E LE ESPRESSIONI DEL VOLTO SONO IDENTICHE.

Tuttavia, il respiro classico scelto da Cooper per questo racconto di formazione interpreta bene la matrice nazional-popolare del Boss e attribuisce un significato universale al suo crollo nervoso nel 1982, quando dovette fare i conti con un senso di vuoto apparentemente incomprensibile dopo il trionfale tour di The River: tornato nei luoghi dell’infanzia, riaffiorarono infatti tutti i ricordi del rapporto irrisolto col padre insieme alla confusione di chi si sente ormai privo di legami, quindi senza un’identità precisa.

Reason to believe

Questo “nulla” ha generato il bisogno di una catarsi personale e artistica attraverso la composizione di brani oscuri, solitari per definizione, cantanti con un’eco che sembra provenire da un tempo lontano o dai recessi dell’anima. Non è un caso se tutti i pezzi di Nebraska intreccino immagini private dell’infanzia (Mansion on the Hill, Used Cars, My Father’s House) con storie di outsider senza un futuro, come il fuorilegge di State Trooper in fuga dalla polizia o il personaggio di Martin Sheen ne La rabbia giovane, cui si ispira la title track del disco. Purtroppo, Cooper ha perso l’opportunità di raccontare una storia ancora più grande a partire dalla solitudine di Springsteen nei primi anni ‘80, quella di una generazione reduce dal sogno di libertà del decennio precedente, risvegliatasi in un’America improvvisamente individualista, frammentata e priva di una traiettoria definita.


STEPHEN GRAHAM, NEI PANNI DEL PADRE DI SPRINGSTEEN, OFFRE UN’INTERPRETAZIONE MOLTO TOCCANTE.

Scegliendo di volare basso, Cooper è inciampato inoltre in qualche manierismo eccessivo nella costruzione dei flashback (la fotografia bicroma da manuale, le situazioni esemplari, l’impiego reiterato delle soggettive, quel senso di malinconia un po’ a buon mercato), durante le parentesi più sentimentali o quando i dialoghi cercano di offrire una lettura psicanalitica del personaggio. Però il film racconta la creazione di Nebraska in modo onesto, senza derive retoriche e con una parabola funzionale a tratteggiare la dimensione interiore del protagonista, rifuggendo il fanservice spicciolo – infatti funziona bene anche se non si conosce il Boss, parola di amici che mi hanno accompagnato in sala – attraverso un uso molto parsimonioso delle canzoni, forse fin troppo.

La cosa migliore resta probabilmente l’interpretazione di Jeremy Allen White, strepitoso persino come cantante: ha eseguito lui tutti i brani della colonna sonora con una voce praticamente indistinguibile dall’originale, ma è solo la punta dell’iceberg di un’identificazione totale e per nulla scontata verso un artista così devoto alla ricerca dell’autenticità.

Springsteen – Liberami dal nulla è disponibile al cinema.

Nonostante il libro di Warren Zanes somigli più a una monografia dell’album Nebraska che a una biografia del suo autore, Springsteen – Liberami dal nulla è un biopic costruito secondo uno schema tradizionale, ostaggio di qualche cliché del genere e con un respiro molto classico, dove il regista-sceneggiatore Scott Cooper ha perso l’opportunità di approfondire il contesto di disgregazione sociale dietro l’alienazione del Boss, offrendo però un resoconto emozionante, compiuto ma anche significativo per chi non conosce bene la musica di Springsteen, portato sullo schermo da un Jeremy Allen White straordinario persino come cantante.