Avete presente quando seguite un gruppetto semisconosciuto in un locale sudato, poi nel giro di un anno sfondano come i Nirvana con Nevermind o i The Strokes con Is This It, e all’improvviso mezza scena mondiale si presenta con lo stesso taglio di capelli e voi invece vi ritrovate alle feste in un angolo a braccia incrociate a borbottare “io c’ero prima che diventassero famosi” mentre qualcuno mette su il loro ultimo successo planetario distantissimo dal sound originale? Da queste parti l’equivalente è quello che è successo nel cinema d’azione da The Raid in poi. Da quel momento, chiunque abbia avuto una telecamera e almeno due stunt volenterosi ha iniziato a replicare quella stessa formula: spazi claustrofobici, botte da orbi, escalation continua e protagonisti che sembrano al contempo distrutti e imbattibili. Tutto il filone che va dai vari John Wick, Nobody, Extraction, Bullet Train, fino alla versione Disney delle principesse di menare ma pure quella russa dal fantasioso titolo Russian Raid  … sono già quasi quindici anni che ormai abbiamo a che fare con questa nuova estetica codificata e sappiamo che ogni tot mesi, settimane, forse giorni ci ritroveremo qui a parlare di un nuovo film che rifà quella stessa cosa con giusto qualche dettaglio qua e là. E intendiamoci: va benissimo così!  Fight or Flight, non a caso prodotto dalla stessa Thunder Road Films che ci ha dato anche Kandahar e Monkey Man, è esattamente questo: l’equivalente di una band tribute che conosce bene il repertorio, lo ha provato, amato e riproposto con gusto e zero vergogna, certo che nessuno si sia né dimenticato né stufato dell’originale. Spoiler: hanno ragione. SIGLA!

Fight or Flight appartiene evidentemente alla grande famiglia dei film che devono tutto a quella linea genealogica popolata da cugini indesiderati, figli non riconosciuti e cloni affezionati alla causa del pestaggio creativo inaugurato da The Raid. È lapalissiano, non ci prova neanche per un secondo a fingere di essere qualcosa di diverso. Prende quel capolavoro iperfisico di Gareth Evans, lo incrocia con l’eleganza assassina di Stahelski, ci incolla sopra con lo sputo un pretesto narrativo e la lancia addosso a chi guarda sperando che regga fino ai titoli di coda. Spoiler: non ce la fa, ma ci sta simpatico lo stesso. La trama serve solo a far partire la giostra: [F4] un uomo segnato dalla vita e dal passato tormentato [/F4], uno che dorme sui tuk tuk nelle viuzze di Bangkok e che per colazione beve whisky corretto al caffè, trova la sua possibilità di riscatto quando una misteriosa Agenzia lo spinge a imbarcarsi su un volo intercontinentale alla ricerca di un altrettanto etereo bersaglio da proteggere, tale Ghost, un super hacker giustiziere V per Vendetta wannabe che sta mettendo in ginocchio multinazionali in tutto il mondo facendo assaggiare loro il Pugno della Giustizia™! Il problema è che questo Lucas non è l’unico a sapere che Ghost è su quel volo: con lui ci sono anche decine di altri sicari intenzionati a uccidere il bersaglio e intascare la ricca taglia. Quindi riepilogando: un luogo chiuso pieno di killer uno più variopinto e matto dell’altro e un protagonista biondo. Bullet Train paro paro, roba da rip-off con cambio location, se non fosse che la sceneggiatura (poi ci torniamo) gira dal 2020 ed era stata inserita nella Black List dei migliori script di quell’anno. Dei migliori eh, pensa te.

Al centro di tutta la losca faccenda c’è Josh Hartnett, che sfuggito alla Trap di M. Might Shyamalan qui veste i panni di un John Wick pesatissimo dalla vita ed esiliato a Bangkok, con un taglio di capelli che pare rubato a quell’idolo senza tempo della WWE Solofa Fatu Jr. aka Rikishi. È buffo, è stropicciato, è sempre mezzo secondo fuori posto, ma è anche la cosa migliore che potesse capitare al film: perché funziona e funziona pure bene. Da qui i paragoni iniziano da soli: c’è l’anti-eroe solitario che non può fidarsi di nessuno (diciamo Havoc per dirne uno), c’è l’ambientazione unica che si trasforma in un livello di un videogioco (come Bullet Train), c’è il fascino del caos chiuso in un tubo di metallo sospeso tra le nuvole pieno di criminali (Con Air), e quando tutto va in vacca viene da pensare automaticamente a Snakes on a Plane. Poi, naturalmente, arriva il momento in cui la logica salta giù dall’aereo senza paracadute: ad un certo punto, dal nulla, compare una maestra di arti marziali e due allieve in kimono, che voglio dire ma Lucas non le ha viste quando ha fatto il giro dell’aereo per cercare potenziali persone sospette? Conviene abbandonare ogni speranza di trovare un senso a metà delle cose che succedono e andare con grande serenità in picchiata verso il delirio totale, perché Fight or Flight va in vacca senza alcun rimorso, e in qualche modo gli si vuole bene proprio per questo.

Started from the bottom, now we’re here

La parte action, nemmeno a dirlo, fa tutto. Sequenze lunghe, coreografie ravvicinate, ossa che si piegano nella direzione sbagliata, uso creativo dello spazio angusto (da applausi le mazzate tra un Josh Harnett sotto effetto di tranquillanti e niente meno che Marko Zaror, stuntmen cileno che abbiamo già apprezzato mentre si faceva mordere il pacco da un cane in John Wick 4)… l’escalation è notevole, al punto che quando si arriva alla parte in cui viene tirata fuori una motosega (ma come li fanno i controlli di sicurezza, in Thailandia?!), la fotta è alle stelle, tipo pubblico indiano ad una proiezione a caso di Saiyaara. È intrattenimento sporco, rumoroso, entusiasta, che non ha paura di essere eccessivo e che quando ingrana diventa esattamente ciò che promette. Tutto è bene quel che si mena bene, insomma. Peccato che abbiano provato ad appiccicarci sopra anche una storia di cui francamente non si sentiva il bisogno.

Peccato solo che gli sceneggiatori Brooks McLaren e D.J. Cotrona – quest’ultimo forse ve lo ricordate da G.I. Joe e soprattutto dalla serie di Dal tramonto all’alba, se non lo ricordate ci sta perché altrimenti sarebbe sul poster di Wicked e non a scrivere action di serie B distribuiti poco e pure male in streaming – non si siano limitati a far parlare i pugni, ma abbiano tentato di mettere insieme tutto in una trama forzata, appesantita da ambizioni che il film non riesce a sostenere. Ogni volta che Fight or Flight prova a rallentare i giri del motore e azzarda addirittura a prendersi sul serio, cade di faccia: funziona tutto bene quando resta vicino allo spirito di Crank, quando accetta che la follia è il suo campo di gioco naturale, ma ogni deviazione verso il “messaggio” è banale e persino l’unica carta narrativa davvero intrigante, ovvero l’identità di Ghost, viene sprecata troppo presto e nel peggior modo possibile. È un film chiaramente pensato per solleticare la primordiale e mai soddisfatta voglia di vedere gente ammazzarsi a 12.000 piedi, che senso ha buttarci dentro il lavoro minorile e le implicazioni etiche di una nuova rivoluzionaria tecnologia? Tutta la parte sull’Agenzia, che poi Agenzia non è ma ‘sti cazzi, è da prendere, tagliare dalla moviola e buttare nel cestino. Garantito al 100% che il film funziona bene lo stesso e non ve ne accorgete neppure, che mancano quelle scene.

Mica è identico a John Wick, eh! Per esempio manca una scazzottata con le luci al neon tipo discot-ok come non detto

Come per tanti figli illegittimi di The Raid, se avesse avuto il coraggio di restare completamente sregolato, sarebbe potuto diventare a suo modo un altro piccolo cult dell’action contemporaneo. Così com’è, resta un derivato dichiarato divertente quanto basta per accettare il viaggio, che ci regala un Josh Hartnett iscritto alla sempre più nutrita schiera di grandi star che abbracciano la nuova via degli attori che fanno da soli tutti gli stunt e un aereo che sicuramente non rispettava le norme sulla sicurezza a bordo.

Poster-quote:

“È comunque un volo più tranquillo di quelli Ryanair”
Lou Ferragni, i400calci.com

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