Frankie hi-nrg mc parla come rappa: secco, lucido, inesorabile. «La chiusura dei club per i live? Un progetto per limitare l’incontro della gente. Lo stesso motivo che fa chiudere le botteghe e aprire gli ipermercati». Lontano da questo mondo che si basa sui numeri – dai sold out alle visualizzazioni social, fino agli streaming – si è rimesso in gioco con un progetto che ha il sapore della sfida: un concerto che porta in tour basato solo su voce e batteria. Niente basi, niente orpelli, solo lui con un microfono e Donato Stolfi a picchiare duro sul tempo. «Volevo qualcosa che mi stupisse e che stupisse. La gente, dal primo all’ultimo pezzo, balla. Il risultato è raggiunto».

È un’ora di musica in apnea, essenziale e diretta, che riduce il rap alla sua forma primordiale: parole e ritmo. Ma sembra anche una dichiarazione contro il feticismo delle iper produzioni: «Non ha senso avere tanto hardware e poche idee. Sono le idee che muovono le persone». Il rapper, che di idee ne ha sempre avute, ci ha raccontato di aver rifiutato soldi, sponsor, scorciatoie e oggi può osservare la discografia da una posizione privilegiata. La trap? «Una gara di rutti». L’Auto-Tune? «Perché essere contrari? Se lo usi male ha un effetto papera e non credo generi invidia nei cantanti intonati». E neppure la società gli appare migliorata.

Sei tornato in tour, ma ti sarai accorto che inesorabilmente stanno scomparendo i club dove si fa musica dal vivo. Ti sei chiesto come mai?
È un progetto ben riuscito per limitare gli incontri tra le persone in uno stesso luogo. O, quantomeno, scoraggiare la modalità del piccolo-medio club in favore della grande adunanza. Il motivo, in fondo, è lo stesso che ha fatto chiudere le botteghe e aprire gli ipermercati.

Vai controcorrente, riduci all’osso il rap e lo fai esplodere di nuova vitalità.
Sì, proprio così. Per la ricerca di una formula che, oltre a gratificarmi, possa stupirmi e stupire. Penso di aver fatto centro. I risultati di questo tour sono eccellenti in termini di reazione del pubblico. Le persone, oltre ad ascoltare, dal primo all’ultimo pezzo ballano. Che era l’altro motivo per cui ho deciso di fare una cosa con questa intensità.

Sei anche in controtendenza rispetto alle super produzioni attuali.
Vanno bene le super produzioni, ma ha poco senso avere tanto hardware e poche idee. Secondo me ha più senso avere delle buone idee e poi l’hardware che è necessario a valorizzarle. Sono le idee che muovono le persone, non le produzioni.

Sembra che tu voglia mettere in luce lo bolla della musica attuale: tanta produzione e poche idee.
Il panorama è questo. Poi, per carità, ci sono anche in giro delle idee e delle produzioni interessanti, con artisti bravi che giustamente attirano l’attenzione e riempiono gli spazi. Però sono pochi. Sai che non riuscirei a farti tanti nomi quante sono le dita di una mano?

Hai spiegato che il rap, dagli anni ’90 a oggi, è passato a parlare dal noi all’io.
Essendo il rap uno specchio della società è questo ciò che ci restituisce. Da questa cartina tornasole si è passati dal noi all’io con grande rapidità e altrettanta semplicità.

Tu come ti trovi in questo cambio di prospettiva?
L’ultimo brano che ho pubblicato si intitola Nuvole, l’unica canzone uscita durante la pandemia e l’unica che parla in maniera esplicita di quello che abbiamo vissuto visto dall’interno. Ho adottato una formula ibrida dell’io-noi, ma ho scoperto che il noi è sempre più forte dell’io e personalmente non riesco ancora ad astenermi dal denunciarlo.

Foto: Damiano Andreotti

Sei stato il primo rapper a firmare per una major. Allora chi veniva dall’underground si sentiva dare del venduto, mentre oggi se un po’ non ti vendi sembra strano.
La dice lunga su come funziona l’orientamento del pubblico. E di come sia semplice cambiare drasticamente posizione col passare del tempo. Non mi stupivo allora e non mi stupisco oggi.

Hai dichiarato: «Gli anni ’80 sono stati una prova degli anni 2000». In che senso?
Come risposta di riflusso ai fragorosi anni ’70, che arrivavano dopo gli spigliati ’60, gli anni ’80, con quell’inno di fondo al disimpegno, la voglia di non stare sempre lì a pensare alle altrui difficoltà ma anche a pensare agli affari propri, non ha fatto altro che anticipare gli anni 2000-2010, fino ai giorni nostri con un continuo declino etico, politico e sociale. L’assaggio degli anni ’80, con il colpo di reni degli anni ’90, è servito per abituarci negli anni 2000 al concetto di divide et impera, all’insegna del «fatte li cazzi tua». All’insegna, letteralmente. C’è sempre una insegna, un esercizio commerciale che muove qualsiasi passo collettivo.

I tuoi brani simbolo, da Fight the faida a Quelli che benpensano, che denunciavano le storture della società più che un monito sembrano diventati lo specchio dell’attualità.
Per fortuna Fight the faida è stata scritta quando non erano avvenuti gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino, non era stata fondata Libera, Libero Grassi era ancora vivo. Con la sua morte è assurto a simbolo di una Sicilia e una società civile disposta a sacrificare la vita contro il cancro delle mafie. Raccontava una parte nociva, ma non citava chi è stato disposto a contrapporsi alle mafie, come è avvenuto in seguito. Quelli che benpensano, invece, racconta di una società che, paradossalmente, è persino migliore di quella moderna.

Addirittura migliore?
Sicuramente sì. Quelli che mi indignavano all’epoca, oggi sono considerati i più desiderabili.

Quanti no pesanti hai detto per questioni etiche?
Alcuni li ho detti e ne sono tutt’ora fiero. Altri erano un po’ superflui. Di sicuro sono i no che ti fortificano, che ti formano, che fanno tenere le mani salde sul volante, diciamola così.

Oggi fa discutere che Achille Lauro sia diventato testimonial di McDonald’s.
Intanto ognuno fa le valutazioni che crede opportune. Ma in generale non saprei indicarti un altro marchio commerciale portatore di una qualche idea di civiltà che possa essere indicato come assolutamente puro. Qualunque brand avesse sponsorizzato Achille Lauro penso che avrebbe ricevuto la medesima selva di critiche. Vuoi per questioni di tutela del lavoro, in questo caso, ma anche per altre questioni legate all’ambiente o di sostegno a governi che hanno perpetrato nefandezze. Mia madre diceva: «Il più pulito ha la rogna».

Ti è mai capitato di rifiutare offerte del genere, anche se lautamente retribuite?
Sì, mi è capitato nei primi anni 2000. In un periodo in cui mi avrebbero fatto comodo i tanti soldi che mi offrirono, però ho ritenuto opportuno dire no. Se mi chiedessi anche se mi sono pentito, ti risponderei nì. Nel senso che, pur mantenendo le mie idee, vedendo la situazione in cui siamo arrivati, o come alcuni alfieri del bene si sono comportati, mi vien da dire che forse avrei potuto accettare. Ma sono contento di aver detto no, ho comunque costruito una carriera sapendo esattamente dove mettere i piedi e tutt’ora me li sento belli puliti.

Per chi torna con un tour solo voce e batteria, come vive le polemiche sull’Auto-Tune?
Non vedo perché dovrei essere contrario all’Auto-Tune. Sarebbe come essere contrario al metronomo o all’uso di Photoshop. Vogliamo tornare al fotoritocco con le forbici e la gelatina d’argento? Questo, come altri, è uno strumento a disposizione. Semplifica la vita? Sicuramente. Permette a persone che non avrebbero i mezzi per cantare di farlo? Senz’altro. Lo usano tutti bene? Niente affatto. Si starebbe meglio senza? Non credo. Si potrebbe farne a meno? Di certo finché non c’era si è fatta comunque musica, anche ottima. Ma ricordiamoci che Jurassic Park è stato montato con un software che può tranquillamente stare dentro al nostro smartphone. Ci rendiamo conto? Ormai per montare Star Wars basta un cellulare. Però bisogna prima avere l’idea di Star Wars e girarlo in un certo modo. Poi viene la tecnologia.

Hai mai provato l’Auto-Tune per sentire l’effetto che fa?
Per il momento no, perché per quello che ho prodotto non ho sentito l’esigenza di usarlo. Ho usato, invece, degli strumenti simili per alcuni pezzi. Ma non credo di aver neanche mai usato un phaser, eppure esiste da moltissimi anni. Non lo ricordo, ma può esserci stato qualcuno che all’epoca della sua diffusione ha detto: «Eh però questo phaser non va mica bene…».

Insomma, i cantanti non devono avere timori di essere sostituiti da un software?
Io penso che un cantante non possa sentirsi insidiato da uno strumento del genere, che in più viene utilizzato in modo completamente starato. Perché se usato correttamente non se ne accorgerebbe nessuno che viene utilizzato. Quello che indigna la gente è il suonino petulante, come nel pezzo di Cher di quasi trent’anni fa Believe, con la voce che salta avanti e indietro fra i toni. Ma è talmente evidente quell’uso lì che è come un effetto papera. Può piacere o meno, ma non credo che debba generare un moto di invidia da parte di chi è intonato.

Foto: Efrem Zanchettin

Hai spesso difeso la trap dai luoghi comuni che le vengono appiccicati, anche in televisione, ma c’è qualcosa che proprio non ti piace della scena attuale?
La monotonia e la monotematicità. Il fatto che ci si riferisca tutti al medesimo immaginario visto dallo stesso punto di vista. La scarsità di punti di vista in relazione alle cose di cui decidono di parlare. Mi sembra che dicano tutti più o meno la stessa cosa con lo stesso obiettivo. La sensazione è che sia tutto finalizzato a compiacere il pubblico, specie giovanissimo. Sembrano dei ragazzini che fanno la gara di rutti con l’obiettivo di scandalizzare gli adulti e attirare l’attenzione dei loro coetanei che si rispecchiano in un trasgressivo ruttatore che, in quanto trasgressivo, è da emulare. Ma sempre di rutti si tratta.

Neanche la violenza di certi testi ti indigna?
Mi sembra rientri nella gara di rutti. La violenza sulle donne? Fatto. Uso esplicito di droghe? Fatto. Bestemmia dei primi sei mesi del calendario? Fatto. Poi a che cosa arriveranno? Se questo è il gioco, mi sembra un gioco destinato a durare poco.

Te li immagini i trapper tra 25-30 anni a fare un tour voce e batteria?
Posso solo augurarglielo. Ho avuto l’occasione di conoscere tanti giovani durante il tour che si sono molto divertiti e mi sembravano motivati dalla scoperta che ci si possa divertire senza essere parte di un pubblico di uno stadio, ma di una situazione più contenuta, che si possa assistere a qualcuno che canta dal vivo e non sopra a un disco precedentemente registrato aggiungendo alcune parole per i raddoppi, che la musica suonata dal vivo, anche solo con una batteria, ha una capacità di far muovere le persone grazie a un livello emozionale che fa venire voglia di tornare a vederci di persona.

Altro tratto caratteristico di quest’epoca: la corsa ai sold out. È una distorsione?
Non è altro che la trasposizione nel live dell’esercizio di determinate metriche che l’industria ha stabilito essere fondamentali, convincendo gli artisti, affinché convincessero il pubblico, a ritenerle fondamentali. Un po’ come le visualizzazioni sui social o il numero di streaming. È un modo per viziare il mercato con l’obiettivo di fare grosse rapine con un grande bottino in un colpo solo, invece di andare a lavorare di più su tanti piccoli eventi. E se poi l’artista protagonista di questa rapina, che viene costretto a mettersi il passamontagna e a minacciare il pubblico, non riesce a colpirne abbastanza, viene scartato e sarà un suo problema. Quanti artisti giovani hanno grippato al primo successo dopo essere stati sparati in uno stadio e non aver avuto la capacità, anche per esperienza e storia personale, di tenere insieme il tutto? Io con Fight the faida ho avuto un successo istantaneo enorme, ma se mi fosse capitato l’anno scorso probabilmente quest’anno sarei già in analisi.

Invece quando ti capitò nel 1992 quali conseguenze ebbe?
Che mi sono fatto strada attraverso i piccoli club, quelli medi, gli stadi, i festival, il tour con Fiorella Mannoia, ho scritto canzoni per altri importanti artisti e ora sono in tour voce e batteria con la speranza di tornare ai festival medio-grandi e, perché no, in uno stadio. Non mi spaventano né il piccolo spazio, né quello grande. Devo questo percorso anche al mio discografico di allora, Umberto Damiani della Irma Records. La terapia generale fa bene a tutti, ma almeno ho scongiurato quella specifica di un grande successo che non ho saputo gestire.

Il tuo ultimo album è del 2014, Essere umani. Pensi che un giorno tornerai a pubblicare un disco, oppure, vista la situazione attuale della discografia, non ne vale la pena?
Non mi sento di escludere nulla. Come l’epitaffio voluto da Califano: non escludo il ritorno. In questo momento non sto lavorando a un album, mi piace di più lavorare sui live, tra concerti, dj set o la conduzione di eventi. Ma se a un certo punto avrò abbastanza materiale farò anche un disco e sicuramente Rolling Stone sarà tra i primi a saperlo.