di
Guido Sassi
«La montagna delle visioni» è il titolo dell’esposizione dedicata al pittore trentino
«La montagna delle visioni» è il titolo della mostra su Giovanni Segantini inaugurata alla galleria civica di Arco, sostanzialmente in contemporanea con l’esposizione al museo civico di Bassano del Grappa. La prospettiva sul pittore trentino si muove su direttrici diverse, volte comunque a indagare sia il rapporto tra l’artista e il suo tempo, che la percezione di un uomo mitizzato nella sua relazione con la montagna. Niccolò d’Agati, che ha curato la mostra di Arco insieme a Mirella Carbone, ci ha aiutato a capire qualcosa di più su Segantini e la sua connessione con le terre alte. «Abbiamo voluto affrontare una rilettura del percorso artistico di Segantini sia dal punto di vista storico che nell’essenza materiale della sua pittura. Chiaramente, per il largo pubblico la sua visione coincide con quella dell’artista legato alle montagne, ai contadini. Noi però abbiamo voluto evidenziare un altro aspetto: la montagna per Segantini non è uno sfondo e non è nemmeno un soggetto, ma un mezzo».
Il rapporto con la montagna
Per arrivare dove? Una lettera del 1893 del pittore a Vittore Grubicy de Dragon ci fornisce un primo indizio. «Da questo scritto emerge con forza che l’obiettivo è trovare un linguaggio che arrivi a trasfigurare la realtà, il suo sogno è stringere la natura in un pugno e farne un poema. Perché il sogno è bello, ma la materia lo uccide». La storia e le opere di Segantini ci insegnano che la ricerca è stata fruttuosa, ma nell’artista c’era consapevolezza di questa riuscita? «Assolutamente. Negli anni ‘90 il suo percorso arriva a compimento e lui stesso dice che La vanità è il suo capolavoro. Ma anche nel Trittico delle alpi, la sua opera finale, c’è piena consapevolezza del linguaggio acquisito». Oggi è facile associare Arco al mondo della montagna vissuta, intrinsecamente legata alle attività che si praticano sui sentieri e le sue pareti. Non è così al tempo di Segantini, quando la quota raramente viene vissuta per svago e solo da una ristretta cerchia di benestanti. Per i contadini e i montanari, invece, rappresenta il lavoro. Per Segantini qualcosa di altro ancora. «Ha vissuto pochissimi anni ad Arco; con la morte della madre e il successivo trasferimento a Milano, le montagne diventano in primo luogo un ricordo mitizzato degli affetti e nostalgia».
La lontananza da casa
Il pittore non tornerà mai al paese natale: su di lui pende infatti la minaccia di arresto, per renitenza alla leva. «Ciononostante, il rapporto rimane sempre vivo e Vittorio Zippel si adopera per fargli ottenere la cittadinanza. Viene addirittura organizzata una staffetta per andare a trovarlo». Che la montagna possa essere una sorta di inconscio rimando all’universo materno rimane un’ipotesi suggestiva, mentre è certo che la montagna stessa per Segantini è non solo una fonte di ispirazione, ma «una forza primigenia, l’apoteosi della natura. È il luogo dove la luce svela accordi cromatici, evidenze dell’anima che la governa. È la manifestazione di una divinità non confessionale. Se andiamo all’origine del panorama del trittico, c’è una sorta di anima che unisce il filo d’erba alla nuvola, all’animale e all’acqua del lago. È una forma di panteismo». Nel cercare di capire appieno Segantini e il suo rapporto con la montagna, non dobbiamo perciò pensare la stessa come un contenitore, o rimanere incastrati in un dualismo tra l’essenza finita dell’uomo e l’infinito della natura. «Nella natura l’uomo si fonde con il tutto, ma la natura certamente vive con le sue leggi: vita, morte, inverni. L’uomo condivide la sorte di tutti questi elementi, c’è una corrispondenza totale, è parte dello stesso mistero. Del resto, quando vediamo certi paesaggi, i contadini hanno quasi una dimensione eroica: non in una accezione biblica però. In dipinti come Ritorno dal bosco, il paesaggio è un luogo dove l’uomo trova una rispondenza, un rimando alla sua dimensione».
«Mi inginocchio a baciare i fiori»
Segantini sente questa spinta al trascendente, ma vive la montagna immergendosi dentro. «In alcune lettere dice: mi inginocchio a baciare questi fiori, voglio dipingere come Dio dipinge e l’arte di dio sono i fiori. La natura è un enorme altare, ma Segantini la vive da dentro. Nelle sue rappresentazioni la montagna non è verticale, non viene mai inquadrata dal basso verso l’alto. I suoi personaggi ci sono immersi dentro. Era un camminatore, la conoscenza della montagna è innanzitutto fisica, non è qualcosa di lontano». Segantini lascia il suo tempo alla vigilia di mutamenti drammatici e sono alcuni dei suoi stessi “allievi” a evidenziare la frattura tra due epoche. «Umberto Boccioni, il cui stile è stato profondamente influenzato dal divisionismo di Segantini, in un secondo momento arriva persino a ripudiare gli artisti che “si mettono gli scarponi” per andare in montagna. Stiamo andando verso il futurismo e la condanna un modo di vivere la montagna che viene associato al Touring club». Oggi Segantini viene invece rivalutato non solo per l’opera, ma anche per il messaggio che può lasciare innanzitutto ad Arco e al Trentino: non c’è una montagna fuori dall’uomo. Se vogliamo rispondere alla nostra anima, dobbiamo vivere in armonia con la natura e le forze che la regolano.
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23 novembre 2025
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