di
Francesco Battistini
I sopravvissuti agli eccidi: «L’impunità è un via libera per nuovi massacri». Lo scrittore Portnikov: ma Putin accetterebbe la pace?
DAL NOSTRO INVIATO
KIEV – 2.360 chilometri e un sacco di cose dividono Bucha da Ginevra. L’abisso nero della guerra dal bianco delle cime alpine. Domenica mattina, mentre in Svizzera si cominciava a discutere di piani americani ed europei, i sopravvissuti di Bucha entravano nella chiesa di Sant’Andrea Apostolo e non potevano non guardare, come ogni santo giorno dal marzo 2022, la tomba comune proprio di fianco al sagrato, dove ancora non riposano i loro morti.
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Nelle fosse ardeatine ucraine non si può seppellire così, con un colpo di vanga, il primo grande eccidio ordinato da Vladimir Putin: padre Andrij Halavin, celebrata la messa, è uscito e ha parlato a nome di tutti. Poche frasi, ben scandite. Solenni. Perché le sentissero alla Casa Bianca, al Cremlino, sulle Alpi del Giura e nelle coscienze del mondo: «L’amnistia per i russi che ci hanno massacrato — ha detto — è un via libera. Significa che si può continuare a bombardare, a torturare, a giustiziare. Con la certezza che non accadrà nulla». L’impunità non passa, non qui: «Vogliono il perdono per tutti i crimini di guerra? — l’urlo d’una madre, Vira, 66 anni, che ha perso il figlio Andrij —. È orribile! Lasciateli venire qui! Lasciate che Trump venga qui con la sua famiglia. Vedano il nostro dolore. E forse, allora, cambieranno idea».
Ridere piangendo
Se è vero che si fa pace dopo aver fatto giustizia, a Bucha i punti dell’accordo potranno essere 28, 26, 19 o mille: è come se valessero zero. Perché si sa chi torturò e uccise. E a Ginevra vogliono che i carnefici, in pace, se ne vadano; che le vittime, in pace, si mettano il cuore. «Stiamo ridendo di questo cosiddetto Piano», è sarcastico M. H., un capitano di brigata che lavora al ministero della Difesa. Ridere piangendo: difficile trovare voci entusiaste.
Pure a Kiev, che da Bucha dista 60 km, si è lontani dalle discussioni sui confini, la Nato, gli asset russi, la neutralità. «È solo una trappola politica preparata da Putin», dicono duri i sodali dell’ex presidente ucraino Petro Poroshenko, acceso oppositore di Volodymyr Zelensky: «Ci siamo finiti nel modo peggiore, con un team negoziale imbarazzante. Che ci faceva a Ginevra uno come Andrij Yermak? Molte di quelle proposte sono inaccettabili in entrambe le versioni, europea e americana. Accettarle, significa tradire il mandato. E demolire la fiducia internazionale». In realtà, commenta Korbinian Leo Kramer, columnist del
Kyiv Post
, non tutto è da buttare e «questa pressione almeno ha coagulato molte simpatie intorno a Zelensky, che ora tenta di rafforzarsi».
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Però anche Vitalij Portnikov, scrittore molto letto, si sente in trappola: «Sì, ci stanno infilando in una falsa scelta, tra capitolare e arrenderci. Con una discussione sui piani di pace che serve a tutti: chi per non parlare della corruzione, chi per dimostrare che Zelensky è inadeguato, chi solo per dire che non ha più forza e bisogna accettare qualsiasi condizione… Scompare il punto fondamentale: Putin l’accetterebbe, una pace? Sappiamo tutti che non gl’interessa negoziare. A meno che questo non sia un pretesto per continuare la guerra o evitare nuove sanzioni. Se uno è davvero interessato, prima di trattare vuole un cessate il fuoco: si fa così in tutte le guerre. Ma lei la vede, questa volontà?».
Scetticismo, dunque: «Questi negoziati faranno la fine del famigerato accordo sulle terre rare. Li stanno conducendo solo perché l’inviato russo Kirill Dmitrev, sperando d’evitare sanzioni sul petrolio, ha messo una bozza idiota sotto il naso dell’inviato americano Steve Witkoff. E perché uno zelante collaboratore di Donald Trump ha portato la bozza in Sala Ovale, per lusingarne la vanità. Appena si parleranno sul serio, Trump e Zelensky, questo accordo fallirà. E non perché non lo firmeranno loro due, ma perché non lo firmerà mai Putin. Uno che si convince alla pace solo quando non può più continuare la guerra: in quel momento, non avrà bisogno di Trump né d’altri, per desiderare una tregua».
Ilya Ponomarev, l’unico parlamentare russo che nel 2014 votò alla Duma contro l’annessione della Crimea, conosce bene Putin e concorda: sarà sempre e soltanto lo zar a decidere che cosa, e quando, firmare. Ponomarev è scappato da Mosca, oggi è cittadino ucraino. Con l’aria che tira a Kiev, preferisce starsene in America. «Non mi chieda che cosa penso di quest’accordo», fa il prudente: «Ho capito solo che si sta facendo un sacco di rumore. Ed è un rumore che fa comodo a tutti: a Trump che vuole un risultato, a Putin che vuole prender tempo e pure a Zelensky, che vuole un po’ di silenzio sugli scandali».
25 novembre 2025 ( modifica il 25 novembre 2025 | 08:04)
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