Le donne hanno lavorato nel settore della fotografia fin dall’inizio, ma sono sempre state trascurate dalla narrazione ufficiale. Con il progetto Fotografiste: Women in Photography from Italian Archives, 1839-1939, condotto dalla Scuola IMT Alti Studi Lucca in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Brera, viene restituito loro il nome e il riconoscimento
Ci sono sempre state, anche se escluse dalla narrazione dominante. Nel mondo della fotografia le donne sono state attive sin dall’inizio, in tutti i campi. Come fotografe, assistenti, ritoccatrici, operaie e tecniche, in ambito artistico ma anche industriale, sviluppando competenze e contribuendo a gettare le basi per gli sviluppi futuri della disciplina. Alcune hanno gestito per generazioni studi fotografici che portavano il nome del padre o del marito, altre hanno fotografato tutta la vita in casa propria. Eppure per decenni le tracce della loro presenza erano sparse, frammentate, relegate ai margini.
Oggi a oltre 300 donne della fotografia vengono restituiti nomi e cognomi, storia, identità e contributi. Questo grazie al progetto Fotografiste: Women in Photography from Italian Archives, 1839-1939, condotto dalla Scuola IMT Alti Studi Lucca in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Brera e finanziato dall’Unione europea.
La ricerca esplora il contributo cruciale che le donne hanno portato nello sviluppo della disciplina fotografica durante il primo secolo del mezzo, dal 1839 fino all’inizio della Seconda guerra mondiale. Un periodo in cui il loro ruolo è rimasto inesplorato, messo da parte in favore di una narrazione prevalentemente maschile. Una storia incompleta, almeno finora.
Non un’eccezione Lavoratrici del reparto rullini, 1940 ca., stampa positiva ai sali d’argento. Cairo Montenotte, Archivio Ferrania Film Museum.
«Ci siamo rese conto che le donne, nei primi 100 anni di storia della fotografia, in realtà non erano così poche come si pensa», spiega Linda Bertelli, professoressa di studi visuali ed estetica alla Scuola IMT Alti Studi Lucca e coordinatrice scientifica del progetto assieme a Nicoletta Leonardi, docente di Storia della fotografia all’Accademia di Brera. «Vengono sempre presentate come una rarità, un’eccezionalità, ma erano tantissime a lavorare nel settore e non solo in Italia».
Un lavoro collettivo durato anni negli archivi fotografici di Toscana e Lombardia, due zone caratterizzate da contesti diversi: più studi di medie dimensioni che le donne aprivano, ereditavano e poi gestivano in Toscana, studi grandi oppure impieghi industriali in Lombardia. Un’attività di individuazione e recupero di frammenti di vita, documenti sparsi in archivi diversi per riportarli insieme in una storia coerente.
Ma soprattutto, la volontà di considerare tutte le donne lavoratrici del mondo fotografico, considerato come settore professionale produttivo e non soltanto artistico.
«Questa metodologia ci ha permesso di normalizzare l’esperienza professionale di queste donne. Far vedere che erano tante e che hanno sempre lavorato, togliendo l’elemento di eccezionalità che in qualche modo comunque finiva per isolarle», racconta Bertelli. «La nostra idea non era aggiungere nomi di donne a una storia scritta per escluderle. Noi volevamo che queste esperienze raccontassero un’altra storia, che possa essere un guadagno per il mondo della fotografia, cambiando strutturalmente la sua narrazione».
Ridare un nome
Un obiettivo che si esprime molto bene nella storia del titolo, Fotografiste.
«Nel 2022, durante una ricerca sulle collezioni fotografiche degli archivi di Lucca abbiamo trovato due sorelle lucchesi, Emilia e Giuseppina Marsini, che nel 1867, in occasione di una piccola mostra locale di arti e mestieri, vennero premiate con una menzione d’onore per i loro ritratti fotografici e si definirono con il termine “Fotografiste”. Per spiegare l’uso di questo termine, la letteratura sul tema ha sempre suggerito che le donne, non avendo ancora uno spazio professionale nel settore, tendessero a creare nuove parole per definire il proprio ruolo. Abbiamo intitolato così il progetto, salvo poi scoprire, in documenti antecedenti, l’esistenza del termine utilizzato anche al maschile. Questo ha cambiato il nostro sguardo sull’intera ricerca, perché segnalava un pregiudizio di genere anche in letteratura. Le sorelle Marsini non avevano inventato niente, avevano solo trasposto al femminile uno dei termini correnti che definivano la professione. Perché le donne già ne facevano parte».
Ricercatori e ricercatrici hanno tolto dall’anonimato oltre 300 donne, restituendo dignità a esperienze lavorative per anni considerate minoritarie o eccezionali, e offrendo la possibilità di raccontare la storia della fotografia in altro modo, esplorando anche le esperienze locali fuori dalla geografia delle capitali e individuando connessioni inaspettate.
«Una storia interessante è quella dello studio Ganzini, fondato nel 1862 da Giovanni Battista Ganzini ma che poi ha attraversato le generazioni, passando dalla moglie Carlotta Rovelli alla figlia Udina. Grazie al lavoro di ricerca abbiamo scoperto che un’artista femminista, Silvia Truppi, negli anni Novanta ha progettato una mostra proprio su questa esperienza. Ci ha molto entusiasmato l’idea che non solo questo studio avesse vissuto una linea di eredità di questo tipo, ma anche che la sua rilevanza fosse stata già scoperta e riconosciuta dalle artiste femministe».
Come raccontare
Una lotta, quella per il riconoscimento di lavoro e competenze, che ancora la società porta con sé.
«Quella delle donne nella fotografia è sicuramente una storia di discriminazione, e cancellarle dalla storia è chiaramente stato un atto consapevole di come dovevano essere tramandati gli eventi» dice Bertelli. «Nel processo di ricerca abbiamo dovuto compiere uno sforzo in più, trovare codici non violenti per raccontare delle storie che contenevano un linguaggio discriminatorio.
«Ad esempio», continua, «buona parte dei lavoratori al tempo non volevano che le donne facessero parte del settore perché, essendo tradizionalmente pagate di meno, c’era il timore che la loro presenza avrebbe abbassato gli stipendi. Di conseguenza, il linguaggio poteva tradursi nella narrazione che le donne non erano brave nell’utilizzo della tecnologia, non erano capaci, quando invece noi abbiamo trovato all’interno di riviste specialistiche testimonianze di donne che descrivevano tutte le lenti che usavano, le tecniche con cui scattavano, le tecnologie estremamente complesse che impiegavano, allora come oggi.
Ormai sappiamo benissimo che c’erano donne che lavoravano in camera oscura, che hanno brevettato emulsioni di stampa fotografica, che producevano lenti… Eppure questo discorso dell’incapacità tecnologica ci ha inseguite per tanto tempo, basti pensare alla messa in commercio di fotocamere pubblicizzate per le donne proprio in quanto più semplici da usare. Raccontare queste storie è un guadagno non solo per le donne, ma per tutti, come sempre quando si riallinea il cardine della storia».
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