Non è necessario avere avuto esperienze dirette di relazioni tossiche o abusi per sentirsi comunque sempre in allerta. Lo spiega Valentina Romani, 29 anni, il volto di Mare Fuori e da sempre attivissima in tv grazie a serie come La porta rossa e al cinema con film come Un bacio, oggi alla Camera per parlare davanti ai ragazzi di violenza contro le donne. Basta essere al corrente delle violenze, degli abusi e dei femminicidi che ogni giorno popolano le cronache per avere paura.
Lei crede molto nella sensibilizzazione dei più giovani: «Vorrei infondere loro il coraggio di alzare la voce, di denunciare». Una responsabilità che sente come un dovere perché, spiega, «creare un ponte con le nuove generazioni è fondamentale, bisogna partire da loro perché sono gli unici a poter cambiare il corso delle cose e la nostra società».
Educare, prima di tutto. «Sensibilizzare i giovani, fin da piccoli, è la chiave che può darci speranza. La cultura è la guida nella lotta alla violenza». E quell’educazione, aggiunge, deve guardare a diversi aspetti: «Al rispetto, che per me non è un limite discutibile. Ai limiti, che sono spesso salvifici. Ai sentimenti. Alla capacità di chiedere aiuto».
Il cambiamento nasce dall’ascolto: «Un sentire che è anche osservare, guardarsi attorno, conoscere e capire l’altro per imparare a parlare, a identificare le relazioni tossiche». Perché molto spesso, dice, la violenza si maschera da amore, e si esprime attraverso «la gelosia, il controllo, il possesso».
Il suo personaggio in Mare Fuori, Naditza, sfidava un destino imposto. Lei, nella vita reale, si definisce fortunata, ma non per questo meno spaventata: «Mi ritengo fortunata, ho subito solo catcalling, ma le storie che leggiamo sono troppe. Non possiamo permetterci di tacere, di girarci come se non ci riguardasse». A farle più paura, racconta, non sono solo i fatti di cronaca, ma ciò che li permette: «l’omertà e il silenzio. La colpa è anche di chi chiude un occhio, di chi non accende una lampadina, di chi non frena la battutina. Stare in ascolto significa anche questo: essere partecipi e denunciare».
E quel senso di vulnerabilità non la lascia mai: «Vivo sempre nella paura: la paura di camminare in strada la sera da sola, di parcheggiare la macchina lontano. Cammino veloce, mi guardo attorno, faccio finta di chiamare un amico, a quasi trent’anni avviso ancora sempre i miei quando arrivo». Un’allerta che riguarda tutte: «C’è come una cappa, una pressione sulle donne che si avverte e che non ci rende tranquille, e quindi non libere».
A questo si aggiunge una scoperta che l’ha turbata: alcune sue immagini, alterate con l’intelligenza artificiale, circolano in rete senza che lei ne sapesse nulla. «Lo scopro ora: è disturbante e inaccettabile, è una mercificazione del corpo. Quella donna ritratta non sono io, quella donna non esiste, ma il punto è che la violenza anche in questo caso è reale. Il modo in cui i nostri corpi vengono visti e commentati influisce sulla nostra libertà: la responsabilità dello sguardo è di chi guarda».
Valentina Romani si sente femminista: «Sì, il femminismo rispecchia i miei principi sulla parità di genere, sulle trasformazioni profonde e anzitutto culturali necessarie nella nostra società patriarcale». E, nonostante tutto, uno spiraglio lei lo vede: «Nelle piazze ultimamente ho visto anche tantissimi uomini: mi incoraggia. La strada è in salita ma siamo in cammino: l’avanzamento inarrestabile di un liquido che prima o poi permea il terreno».