di
Paolo Valentino

Lo storico: «Servirebbe un vero riarmo della Germania. La corruzione negli Usa è a livelli mai visti prima»

Come giudica il piano di pace per l’Ucraina, anche alla luce dei cambiamenti che sono stati fatti dopo i colloqui di Ginevra?
«Il meglio è nemico del bene. Contrariamente a tutte le cose che sono state dette sui media, il piano è una base ragionevole per negoziare. I giornalisti si lamentano come fecero con il piano dei 20 punti per Gaza. Ma alle guerre non si mette fine con gli editoriali, bensì o con una vittoria o con un compromesso. Questo piano afferma la sovranità dell’Ucraina, offre a Kiev una garanzia di sicurezza sostenuta dagli Usa, prevede la ricostruzione del Paese. Certo, le cessioni di territorio e l’amnistia per i crimini di guerra sono difficili da digerire, ma se uno vuole riprendersi i territori occupati da Putin deve vincere la guerra. E realisticamente l’Ucraina non è mai stata nella posizione di sconfiggere la Russia. I critici devono riconoscere che il presidente Trump si sta assumendo qualche rischio. Io non credo che sia nell’interesse del popolo ucraino prolungare la guerra di un altro anno, spero che Zelensky usi la sua eloquenza per spiegare perché il momento giusto è adesso. Gli ucraini hanno lottato eroicamente per la loro indipendenza. È tempo di consolidare ciò che hanno raggiunto attraverso la diplomazia».

Niall Ferguson è uno dei maggiori storici dell’economia contemporanei. Di origine scozzese, autore di libri fondamentali come L’ascesa del denaro: Storia finanziaria del mondo, ha insegnato a Oxford, Stanford e Harvard. I suoi interventi sui giornali e in televisione suscitano sempre grandi dibattiti e controversie. Questa intervista nasce da «The Distrupter in Chief», un intervento su Donald Trump pubblicato sul Wall Street Journal in cui lo storico britannico riconosce molti crediti al presidente americano pur non parteggiando per lui.



















































Lei sostiene che Trump è un bene per l’Europa. Ma Trump odia gli europei.
«È un sentimento reciproco. Trump con i suoi shock costringe gli europei a smettere di pretendere l’autonomia strategica e a fare finalmente qualcosa di serio per averla. L’Europa è la grande perdente di questa epoca, ma non solo o non tanto a causa di Trump, bensì a causa della Cina, che sta rovinando l’economia europea. Era prevedibile. Purtroppo, l’Ue non ha ancora fornito risposte adeguate».

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Quale sarebbe a suo avviso una risposta giusta da parte europea?
«Il riarmo della Germania, ma non quello cui stiamo assistendo che avvantaggerà solo Rheinmetall e pochi altri con contratti per sistemi d’arma buoni per gli anni Novanta. Occorrerebbe invece mobilitare l’intera economia tedesca per produrre milioni di droni che cambierebbero l’equilibro strategico in Europa. Il problema degli europei non è Trump ma sono loro stessi. Vedo l’Europa in uno stato illusorio, spera segretamente che, una volta passato Trump, arriverà un presidente democratico che riporterà indietro l’orologio della Storia. Ma questo non accadrà».

Nel suo saggio sul Wall Street Journal lei elogia la «distruzione creativa di Trump». Perché?
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Dovremmo chiederci se tutto sarebbe stato meglio se Kamala Harris fosse stata eletta e ho difficoltà a crederlo. Primo, in politica estera, i problemi che Trump ha dovuto affrontare erano in massima parte risultato degli errori dell’amministrazione Biden in Ucraina, a Gaza e più in generale nel Medio Oriente. Sul piano economico, le conseguenze dei dazi sull’economia americana e su quella globale mondiale sono state meno severe delle previsioni. Terzo e ultimo punto, io non dico che le scelte radicali di Trump non abbiano costi, che probabilmente diventeranno più visibili l’anno prossimo. Ma penso anche che la necessità di un’azione distruttiva fosse evidente da tempo nella politica americana».

A cosa si riferisce?
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I problemi per i quali Trump è stato eletto per due volte sono profondi. Nessuno può far finta che i primi 25 anni del secolo non lo abbiamo dimostrato: la globalizzazione che ha beneficiato molto più la Cina, gli insuccessi dell’azione esterna americana dopo l’11 settembre in Afghanistan, Iraq, Siria e Iran. Trump non è stato eletto perché era la soluzione ai problemi creati da Biden, ma per la profonda insoddisfazione dell’opinione pubblica americana con lo status quo. E a ragione».

Cominciamo dai dazi: hanno sicuramente favorito gli Usa nel breve periodo, ma non hanno certo favorito il resto dell’economia mondiale e questo riduce il commercio globale.
«L’argomento di Trump è che gli accordi commerciali del primo quarto di secolo erano sfavorevoli per gli Stati Uniti, il che non è irragionevole se pensiamo a Cina, India, Brasile e all’Unione europea la cui politica agricola protezionistica è insostenibile per l’America. Voglio dire che agli elettori americani non importa nulla se i dazi danneggiano il resto del mondo. Detto questo, ero cautamente scettico quando in aprile venne proclamato il liberation day dei dazi, pensavo rischiasse di provocare una crisi finanziaria. Non sono un sostenitore del libero commercio alla Adam Smith. Ma il mondo non ha avuto libero commercio prima di Trump, piuttosto un sistema ingiusto dove l’assunto era che gli Usa fossero consumatori di ultima istanza per le economie esportatrici, incluse Cina e Germania. Non possiamo dire che il problema posto da Trump non sia legittimo. E il suo appeal in America è stato che ha sfidato il consenso pro-globalizzazione e pro-free trade consolidatosi dopo la fine della Guerra fredda, trovando ascolto soprattutto in quelle parti dell’America che hanno visto distrutti milioni di posti di lavoro dell’industria dopo l’ingresso della Cina nel Wto, una vera catastrofe per gli Usa. Pechino non ha mai onorato i suoi obblighi dentro l’Organizzazione mondiale del commercio».

Ma l’approccio di Trump funzionerà?
«Non so. Non credo che vedremo una grande reindustrializzazione negli Usa. E penso che avrà un costo per i consumatori. Penso anche che sarà molto difficile liberarsi completamente dalle dipendenze dalla Cina, ci vorranno più di tre anni per risolvere questo problema. E Trump è stato l’unico sin dal 2015-16 a offrire soluzioni radicali».

Uno dei tempi più controversi è se Trump costituisca o meno una minaccia per la democrazia americana e stia cercando di distruggere le basi del sistema costituzionale. Lei non sembra molto preoccupato, perché?
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Trump non è il primo. I presidenti hanno sempre cercato di espandere i margini del loro potere esecutivo. È vero almeno da Franklin D. Roosevelt. La strumentalizzazione del sistema giudiziario è stata diretta dai democratici contro Trump nel 2021, non sempre su solide basi. Biden ha perdonato suo figlio. Quanto a Obama, usò a iosa gli ordini esecutivi che ora vengono rimproverati a Trump. E dopo l’11 settembre, con il Patriot Act, George W. Bush ampliò a dismisura i poteri della presidenza. È una storia vecchia. Nuovo è il fatto che la stampa liberal improvvisamente lo scopre e si scatena contro questa dinamica, con Obama e Biden non lo fecero. Trump non è certo un diligente osservante della Costituzione, ma non ha espresso alcuna intenzione esplicita di cambiarla».

Lei non vede alcun pericolo quindi.
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Se c’è un pericolo, dev’essere implicito o segreto. La questione chiave è se il sistema sia in grado di reggere l’ennesimo tentativo di un presidente di stravolgerlo a suo vantaggio. La mia risposta è sì. In fondo non ha cercato di invalidare i recenti risultati di New York, New Jersey e Virginia. Nelle corti ordinarie, ci sono oltre 400 procedimenti contro l’Amministrazione, che probabilmente riuscirà a vincerne solo alcuni. Non sappiamo come la Corte Suprema deciderà sui dazi, ma non sembra molto ben disposta verso la Casa Bianca. A me pare implausibile che sia in atto una crisi drammatica del governo americano. Dov’è la crisi? Nel fatto che stia costruendo una sala da ballo kitsch nella East Wing della Casa Bianca? Mi sembra che l’allarme sulla democrazia sia disgiunto dalla realtà politica e legale. È la vecchia storia dell’esecutivo che cerca di espandere il suo potere, di un Congresso che non fa molto per fermarlo e dei tribunali che invece fanno molto per arginarlo. Inoltre, direi che i democratici hanno il 75% di probabilità di riconquistare la Camera tra un anno nelle elezioni di mid-term. Se succede, vedrà che la Costituzione si dimostrerà in pieno funzionamento, perché penso che lanceranno subito una procedura di impeachment contro Trump. Ma perché non mi chiede della corruzione?».

Nel senso che Trump l’ha normalizzata?
«La quantità di vantaggi finanziari illegali che la Trump Organization realizza è scandalosa. La corruzione è su vasta scala, non si è mai visto nulla di simile in oltre un secolo. Colpisce l’aperta venalità: le criptovalute, gli accordi per investimenti edilizi nel Golfo, l’uso dei Trump Resort come unici fornitori del governo. Sta offrendo ai democratici molto materiale per fare l’impeachment. Questo è il vero problema di Trump. E scoppierà prima o poi, ne sono certo».

Perché Trump ha un rapporto così subalterno con Putin? Fa il bullo con tutti, tranne che con lui.
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Trump è stato caldo e freddo verso Xi Jinping così come verso Putin. Non è un operatore di politica estera particolarmente sofisticato, perché fa troppo in pubblico e invece la discrezione è un ingrediente essenziale per conseguire i propri obiettivi. Per questo i russi finora sono apparsi sempre vincenti. Detto questo ci sono successi nella politica estera di Trump: il Medio Oriente è un posto di gran lunga migliore di quanto non lo fosse tre anni o un anno fa. Non perfetto naturalmente. Il piano americano in 20 punti è stato approvato anche dall’Onu, c’è una ripartenza degli Accordi di Abramo. Dobbiamo dargli il credito che merita. La politica mediorientale di Trump ha avuto successo nel primo mandato, poi è stata distrutta da Biden e ora viene rimessa insieme. Ha ancora tre anni: sta cercando di mettere fine alla guerra in Ucraina e a regolare le cose con la Cina, sfide ancora più complesse ma non impossibili. Parte del problema con i suoi critici è che non riconoscono le chiavi del successo di Trump nel Medio Oriente: il mix di interessi pubblici e privati che invece gli arabi del Golfo capiscono in pieno poiché è il loro modo di agire. La Casa di Trump ha con l’economia americana lo stesso rapporto che la Casa dei Saud ha con quella saudita. Parlano lo stesso linguaggio. Con Putin è più difficile».

Il nuovo interesse degli Usa per l’America Latina fa parlare di una nuova «Donroe Doctrine», versione 2.0 della vecchia Dottrina Monroe, che rivendicò l’America del Sud come cortile di casa degli Stati Uniti, tenendo fuori le potenze europee.
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Sono stato il primo a parlare di una Donroe Doctrine, termine che ora è ampiamente adottato da altri. Penso sia una cosa buona. Per un quarto di secolo gli Stati Uniti non hanno avuto una politica per il Sud America, anche un po’ imbarazzati per quanto accaduto in passato. Ma il risultato di questa assenza è stato di creare una grande opportunità per Russia e Cina. Se cade un dittatore brutale come Nicolás Maduro in Venezuela, bisognerà celebrare, sarà una vittoria per l’intera regione».

26 novembre 2025 ( modifica il 26 novembre 2025 | 14:56)