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Faccio parte di quella categoria di persone convenzionalmente definite Potterhead.
Che, tradotto in termini pratici, sarebbe quella categoria di gente appassionata di Harry Potter e di tutto quello che gravita intorno al Wizarding World creato da JK Rowling.
Condivido la mia quotidianità con una persona pure più fissata di me con la quale ho anche pianificato e trascorso intere vacanze nel Regno Unito visitando alcune celebri location impiegate per le riprese dei film e con la quale ho già da tempo avviato un processo d’imprinting genitoriale che si traduce nel far indossare a nostra figlia di appena due anni, che non ha ancora la benché minima idea di cosa siano un Horcrux o una pozione Polisucco, abiti a tema potteriano. D’altronde sta per arrivare una serie tv della HBO che riadatterà tutti i libri della saga ed è altamente probabile che finirà per far parte di una schiera di decine di milioni di bambini che crescerà, letteralmente, con le avventure di Harry, Ron ed Hermione così come già accaduto ad altri qualche decennio fa con i libri prima e il franchise cinematografico poi.
Questo per dare a tutti voi un quadro generale di un contesto in cui magari potreste anche riconoscervi. In tal caso non vi stupirete in alcun modo nel leggere quello che, con una certa cognizione di causa, sto per buttare giù su carta: ovvero che i (e le) Potterhead possono essere persone davvero incontentabili quando si parla delle traduzioni cinematografiche dei libri dell’epopea.
Va detto però che tanto la Warner quanto David Heyman (lo storico produttore della saga) quanto JK Rowling (che ha sempre avuto diritto di parola sulle pellicole tratte dalle sue opere) si sono sempre impegnati alacremente per stimolare la peculiarità di cui sopra.
Sulla strada giusta
Nel novembre del 2005, quando Harry Potter e il Calice di Fuoco arrivava nei cinema, Harry Potter era ormai diventato un’icona planetaria grazie a quella popolarità e riconoscibilità che solo il cinema riesce a dare. A prescindere da quante decine di milioni di copie possa aver venduto un libro su cui un film si basa.
Erano gli anni in cui grazie alle trasposizioni cinematografiche di opere fantasy come Il Signore degli Anelli e Harry Potter appunto, Hollywood stava cominciando a capire che, sfruttando adeguatamente delle proprietà intellettuali già esistenti, si potevano fare soldi grossi. A patto però di fare le cose per bene perché, nel mentre, quella cassa di risonanza chiamata internet stava diventando sempre più fondamentale per amplificare sia il successo che l’insuccesso di una qualche produzione.
Se la trilogia tolkeniana di Peter Jackson ha rappresentato qualcosa di unico e irripetibile (a che per lo stesso Jackson, come dimostrato con i tre film de Lo Hobbit) nell’ambito della storia del cinema, il prevedibile successo ottenuto dai film di Harry Potter ha sempre avuto il sapore del compitino ben fatto.
Una cosa apparsa evidente specie coi primi due capitoli, La pietra filosofale e La camera dei segreti, con il loro essere così smaccatamente episodici nel tentativo di regalare al pubblico una cartolina dei libri della Rowling, più che degli adattamenti. Delle cartoline d’alta scuola sia chiaro: una qualità evidente per via degli innumerevoli talenti che, dietro e davanti alla macchina da presa, ci hanno lavorato.
Poi nel 2004 è toccato al Prigioniero di Azkaban, diretto da quell’Alfonso Cuaròn che, dieci anni dopo, avrebbe vinto il suo primo Oscar come miglior regista con Gravity (nel 2019 sarebbe arrivato il secondo con Roma). Un film divisivo: secondo alcuni (me compreso) è il migliore di tutti, secondo altri è una forma di tradimento al libro omonimo per via delle modifiche fatte. Tralasciando noiose discettazioni sul fatto che un adattamento da un medium a un altro deve necessariamente portare a delle scelte narrative che potrebbero risultare indigeste, ci limitiamo a sottolineare che se qualcuno decide di fare un film basato su qualcosa, non bisognerebbe basare il giudizio sul fatto che il suddetto film ripresenti, in maniera pedissequa, quello che viene raccontato nel libro/fumetto/videogame originale proprio per via della premessa di poco fa.
Poi comunque nel caso di Harry Potter, dopo Azkaban è arrivato Il Calice di Fuoco a peggiorare tutto.
Aspettative disattese
Harry Potter e il Calice di Fuoco è stato il primo capitolo della saga a non aprirsi a casa dei Dursley.
Il prologo della pellicola è tutto dedicato alla brutta fine che fa il custode di una tetra villa abbandonata che viene eliminato dall’anatema che uccide, l’Avada Kedavra, che gli viene sferrato contro da un Lord Voldemort non ancora del tutto “riformatosi”.
Un incipit da film horror. PG13, ma pur sempre horror.
Una premessa ottima che pareva applicare, come già in Azkaban, quel cambiamento di tono, di registro che si avverte sia nel linguaggio che negli avvenimenti dei libri di JK Rowling. Che seguono il processo di crescita dei suoi protagonisti diventando, progressivamente, più maturi.
Ecco, in Harry Potter e il Calice di Fuoco non accade nulla di tutto ciò e per colpa non si sa bene di chi, il concetto di “maturazione” che viene usato per il lungometraggio è quello di una generica “teen angst”, di un’inquietudine adolescenziale marcata e stucchevole tanto che pure le capigliature del trio di protagonisti gridano pietà a distanza di vent’anni.
Non è tanto una questione di quello che c’è nel film e che non c’è nel libro e quello che, del testo scritto, è stato eliminato o delle scene diventate meme. È una questione di equilibrio narrativo non pervenuto. Forse anche per colpa di un regista, Mike Newell, quello di Quattro matrimoni e un funerale e Monna Lisa Smile, che non era la scelta più adatta per trasportare sul grande schermo la storia che fa da vera e propria svolta nell’epopea. Se Cuaròn avesse avuto tempo e voglia di una seconda incursione nel mondo magico sarebbe sicuramente andata diversamente. Ma coi se si fa ben poco.
La storia del Calice di Fuoco è quella in cui il dramma si affaccia con ancor più prepotenza nella vita degli studenti di Hogwarts con la morte di Cedric Diggory, quello della definitiva rinascita del Signore Oscuro.
E proprio con Lord Voldemort il Calice di Fuoco tradisce completamente lo spirito dei libri effettuando delle scelte che, ancora oggi, spiazzano.
Senza nulla togliere a Ralph Fiennes che è e resta uno dei migliori attori in circolazione, il suo villain, oltre ad avere un look più da rettiliano che da umano, cosa, questa, che per ragioni di messa in scena può anche starci, diventa un cattivo sempre sopra le righe, teatrale, soggetto a sbalzi d’umore e fastidiosi saltelli nel senso letterale del termine. Non ha nulla della spietata freddezza, del fascino e delle pronunciate doti di abile manipolatore che ha la sua controparte letteraria.
Ed è questo, a vent’anni di distanza, il principale tradimento che i film, a partire col Calice di Fuoco, hanno operato nei confronti dei libri e dei fan.
Tanto che non è difficile capire perché, oltre alle ragioni commerciali, la Warner abbia deciso di riportare in scena i libri di Harry Potter sotto forma di serie TV.