Per una nazionale che rischia di non andare a Usa 2026 e saltare la terza edizione di fila, c’è un’altra Italia che ai Mondiali ci va, facendo pure bella figura: l’Under17 guidata da Massimiliano Favo ha conquistato uno storico terzo posto ai Mondiali di categoria in Qatar, battendo ai rigori nella finalina di consolazione il Brasile campione in carica. Non è la prima squadra giovanile azzurra che fa segnare ottimi risultati di recente.
L’Under20 poche settimane fa si era fermata agli ottavi (sempre meglio che non qualificarsi proprio), ma veniva comunque da un secondo, un quarto e un terzo posto di fila. L’Under19 ha fatto due semifinali e una vittoria nelle ultime tre edizioni degli Europei. Adesso si aggiunge l’Under17 con questo storico bronzo, miglior piazzamento di sempre. È il solito discorso dei giovani che ci sono, ma che si perdono nella fase della crescita: tant’è vero che se in queste prime categorie gli azzurrini primeggiano ancora, cominciano a faticare già in Under21 (la nostra rappresentativa non si qualifica alle Olimpiadi dal 2008 e ora sta rischiando di non andare ai prossimi Europei, dove non vinciamo dal 2004), per poi sprofondare proprio a livello maggiore. Segno che evidentemente – oltre ad una serie di questioni tattiche e di sviluppo del calcio giovanile – nel sistema italiano c’è anche, e tanto, un problema di maturazione, dovuto allo scarso spazio e tempo concesso ai nostri talenti nei vari campionati, per quelle che sono le logiche stantie con cui vengono gestiti i club.
Nell’exploit dell’Under17, però, c’è anche un altro elemento di novità, che merita una riflessione. Innanzitutto, l’Italia che ha così ben figurato tra i pari età in Qatar ha in rosa diversi italiani di cosiddetta “seconda generazione”, e sappiamo quanto questo possa arricchire le potenzialità di una squadra: si pensi a ciò che accade nel calcio da anni con Francia, Olanda, Inghilterra, ma più di recente in un’altra disciplina anche all’atletica italiana. Non solo: alcuni azzurrini, tra cui quasi tutti i migliori, non giocano nemmeno in Italia ma già all’estero. È il caso ad esempio di Luca Reggiani e Samuele Inacio (quest’ultimo figlio d’arte, dell’ex attaccante Inacio Pià), considerati i due prospetti più interessanti, che dalla scorsa estate si sono accasati in Germania al Borussia Dortmund, uno dei club più rinomati d’Europa per la capacità di lanciare talenti. Oppure di Jean Makumbu, che ha fatto tutta la trafila in Francia e oggi è in forza al Reims, con cui potrebbe esordire un giorno in Ligue1, il campionato che più di tutti dà spazio ai giovani. E ancora Dauda Idrissa, nato a Brescia ma trasferitosi presto con la famiglia in Inghilterra, dove ha già fatto l’esordio in prima squadra al West Bromwich Albion e firmato un contratto professionistico.
In un calcio italiano vecchio, quasi morto, la fuga dei cervelli (o in questo caso bisognerebbe dire dei piedi) all’estero rischia di essere un fenomeno sempre più diffuso e anche necessario. Non dobbiamo nemmeno vergognarcene, ma quasi augurarcelo: abbiamo citato l’esempio del valore aggiunto che hanno portato gli italiani di seconda generazione all’atletica, potremmo fare qui invece quello del rugby, dove la rinascita della nazionale è coincisa anche con la rinuncia al progetto autarchico delle accademie e la constatazione che i nostri giocatori crescevano meglio all’estero. È quello che si spera potrà capitare ai vari Inacio, Reggiani &Co., in società serie, che credono nei giovani, sanno quando aspettarli e come lanciarli, per arrivare poi un giorno a dare un contributo alla nazionale. Mentre da noi facciamo tutto il contrario (basta pensare alla gestione recente di Simone Pafundi, che veniva considerato il miglior talento della nuova generazione e invece si perso tra prestiti e contratti). Se il calcio italiano è ormai incapace di produrre, crescere o forse persino riconoscere il talento, non resta che augurarci lo facciano altrove. Che ci salvino gli altri dalla nostra mediocrità.