Che cosa accomuna Olivia Nuzzi e Chiara Ferragni, oltre all’essere bionde, all’essere trentaequalcosenni, all’aver fatto più soldi di quanti le loro origini facessero presagire, e all’aver tutte e due suicidato le loro carriere con decisioni sceme che però in molti hanno l’impressione stiano pagando un po’ troppo?

Cominciamo dalle differenze. Chiara Ferragni avrà pure un ex marito col quale farsi dispettucci, ma Olivia Nuzzi ha alcuni tra gli ex più rancorosi che mi sia capitato d’osservare, e includo nell’osservatorio anche gli ex miei, nessuno dei quali rallenterebbe vedendomi passare sulle strisce.

Vi avevo già raccontato della newsletter con cui Ryan Lizza – fino all’anno scorso fidanzato di Olivia – svelava al mondo che la storia con Robert Kennedy jr. durante la campagna elettorale del 2024 mica era la prima, Olivia prima delle elezioni del 2020 aveva avuto anche una storia col governatore della South Carolina. Ci sarebbe da dire anche di Keith Olbermann, con cui pure era stata fidanzata, e che ora non vede l’ora di twittare (o come si dice ora) quanto lei sia scarsa, immorale, e altre carinerie.

Ma Ryan è più grave. Io lo so che, da quando hanno tutti una newsletter, si sono tutti preparati la risposta «il lavoro si paga» quando li si accusa di spettegolare a pagamento, ma lasciate che ve lo dica da titolare d’una newsletter non gratuita: certo che dire «abbonatevi perché ai paganti racconterò un po’ di fattacci altrui» fa particolarmente schifo, è ovvio che faccia particolarmente schifo. Poi ormai non ci sono più regole e quindi far schifo va benissimo, ma non è che a chi vi dice che fate schifo manchino delle informazioni: manca loro qualche dito di pelo sullo stomaco, al limite.

Dunque Ryan, dopo la prima newsletter gratuita, ne aggiunge due (per ora, due) a pagamento. È pur sempre d’origine italiana: per onorare la tradizione nazionale, il padre ottantanovenne quest’estate è stato condannato per aver frodato il fisco americano; il figlio si limita alla tradizione delle trascrizioni di cazzi altrui per il pubblico pagante: non avendo verbali giudiziari con annesse chat, ci racconta le cose che apprese allorché in carica come fidanzato di Olivia.

Tra le quali, cosa fosse il felching, che stava nella seconda newsletter e di cui avrebbero parlato Olivia e Kennedy. Sabato, quand’è uscita la seconda newsletter, qualcuno ha twittato un grafico secondo cui “felching” era la parola più ricercata. L’ho in effetti dovuta cercare anch’io, e fa troppo schifo pure per i miei laschi standard, quindi se volete sapere di che pratica sessuale si tratti ve la andate a cercare da soli.

«Vorrei non trovarmi in questa situazione, non dover scrivere di tutto questo, non dover sottoporre me stesso e i miei cari all’imbarazzo e all’ulteriore perdita di privacy. Ma Olivia ha alimentato una campagna di disinformazione su quel che è veramente accaduto e Bobby, che nega tutto, è uno dei politici più influenti d’America. Purtroppo, sono l’unico oltre a loro che sa tutto». Purtroppo, che sfortuna, che dispiacere, sono costretto a incassare tredici euro da ognuno di voi pettegoli disperati cui non sembra vero di sbirciare le corna dei giornalisti e dei politici invece di quelle degli influencer (come se ci fosse, poi, una differenza). Purtroppo, mannaggia e mannaggetta, queste cose ve le dico ora a pagamento, mica un anno fa quando magari potevo influenzare il risultato elettorale (non sarebbe cambiato niente, ma comunque le lezioni d’etica giornalistica alla ex da parte di uno che si ricorda dell’etica solo quando c’è da farle i dispettucci, ecco, come dire).

Ci sono, nelle polemiche assortite di queste settimane, moltissimi moralismi all’americana, e una grande verità diluita. La verità diluita è: Olivia Nuzzi è un prodotto del sistema, cioè nostro. È figlia d’un tempo in cui ci piacciono i personaggi, non i grigi notiziari; il carisma, non l’attendibilità (in tutto, dalla politica in giù).

Ci piaceva che la più famosa giornalista politica americana fosse una sventola bionda, e abbiamo finto di non sapere che le sventole bionde ventiseienni quello fanno: vanno a letto con quelli che intervistano. Perché sì. Per la famosa ragione di Bill Clinton rispetto a Monica Lewinsky: perché potevo. Dei molti tweet di Olivia che alla folla che chiede la sua testa in questi giorni piace tirare fuori per dire che si capiva tutto da prima (col senno di poi, si capiva sempre tutto da prima), quello che fa più ridere è di quasi undici anni fa, gennaio 2015.

Allora Olivia aveva ventidue anni, e venite con me, ci nasconderemo dietro una tenda e spereremo fortissimo che nessuno mai ci rinfacci le stronzate che dicevamo a ventidue anni. (C’è un elemento interessante in Nuzzi e Ferragni, ma pure in Renzi e Saviano e chissà quanti altri: sta nell’avere carriere supercalifragilistiche prestissimo, e mandarle a puttane prima che arrivi l’età alla quale gli altri cominciano. Credo c’entri anche il fatto che, in questo secolo, avere successo significa avere un’esposizione per cui fai in cinque anni quel che nel Novecento si faceva in cinquanta).

Gennaio 2015, dicevo. Nuzzi linkava un articolo altrui sul fatto che in molti prodotti allora recenti, da “House of cards” a un film con Chris Rock e Rosario Dawson, le giornaliste andavano a letto con gli uomini oggetto dei loro articoli. Chiosava la tenera Olivia: Why does Hollywood think female reporters sleep with their sources? Senno di poi e screenshot disponibili su ogni telefono: poi per forza gli sceneggiatori diventano superflui.

«La vendetta è diventata, per molti, una forma d’intrattenimento», scrive Mark Harris sull’ultimo numero di T, il magazine frivolo del New York Times. E, anche non volendo concentrarci sull’ex fidanzato stronzo, è evidente che la condanna morale di Olivia Nuzzi non attiene al suo avere mandato delle foto di tette a Robert Kennedy, e neppure all’avergli forse (questo dice la terza newsletter di Lizza) spianato la strada per il potere facendo la spia su quel che i giornali avevano sul suo conto. Così come è ovvio che la condanna (un anno e otto mesi) chiesta per Chiara Ferragni non è legata all’aver incassato un milione mentre in beneficenza andavano solo cinquantamila euro (che continuo a non capire che colpa sia: non devo incassare il cachet concordato se l’azienda non dà abbastanza soldi in beneficenza?).

È evidente che con Olivia Nuzzi ce l’hanno due categorie di persone. Elettori democratici convinti che, se Trump è di nuovo presidente, è perché Nuzzi scrisse sul New York che c’era un complotto per occultare il rincoglionimento di Biden (dovete avere almeno la mia età, per sopravvalutare così tanto i giornali).

E giornalisti che hanno fatto tutto perbenino, non si sono mai scopati non dico una fonte ma neanche il loro legittimo fidanzato, non hanno mai infranto una regola che fosse una, eppure non erano abbastanza carismatici per questo secolo di personal branding (mi scuso per queste parole in milanese). E sappiamo che uno dei meccanismi che governano questo secolo satollo e disperato in cui ci è dato di vivere è che non siamo mai noi che non siamo stati bravi abbastanza da ottenere qualcosa: sono sempre gli altri che hanno barato.

La rivalsa contro Chiara Ferragni riguarda categorie analoghe. Giornaliste che si contano i cuoricini e non le hanno mai perdonato di non aver condiviso i loro articoli (adesso sembra il pleistocene, ma due anni fa Chiara Ferragni che faceva una storia di Instagram su un tuo articolo ti faceva ramazzare i tuoi bravi centomila follower cui vendere batterie di pentole e iscrizioni a newsletter).

Sinistra che si sente tradita (era la nostra portavoce, e ora passiamo ancora una volta per imbecilli) e destra che gode nel non avere più una nemica potente (non ricordo più che regionali mi dissero che Giorgia Meloni era convinta le avesse fatto perdere la Ferragni, probabilmente per quella stessa incapacità di capire che ormai nessuna opinione conti più niente in base alla quale gli americani son convinti che Nuzzi abbia fatto perdere i democratici).

E, soprattutto, l’amor che muove il sole e le altre procure da trenta e più anni: pubblici ministeri cui a casa dicono «tutti diventano famosi tranne te», e consapevoli che niente ti renderà noto, in questo decennio, più che chiedere che venga messa in gattabuia la Ferragni per aver ingannato gli scemi che volevano la formina con l’occhio per instagrammare il disegno dello zucchero a velo rosa sul pandoro.

L’agitato parterre americano vuole che Vanity Fair, del quale era appena diventata corrispondente dalla California, stracci il contratto di Olivia Nuzzi, per turpitudine morale o giù di lì. Quel che non capiscono, tapini, è che ormai dell’etica giornalistica frega solo a chi non ha altro da vantare. Non a quelli che vengono letti pure se vanno a letto con le fonti, e non ai lettori, non in grado di distinguere un’inchiesta da una diapositiva di Instagram.

Quel che non capiscono, postmoderni ma antiquati, è che il numero che sta per uscire di Vanity Fair, quello con l’estratto del memoir di Olivia Nuzzi, sarà l’unico che correremo a comprare come fossero ancora gli anni di Tina Brown. Un giornale che aveva smesso di esistere sta ricevendo dall’affaire Nuzzi una pubblicità stratosferica. E, dovreste averlo imparato da P.T. Barnum, non esiste pubblicità negativa.

(A proposito di Tina Brown, secondo la quale Netflix si comprerà i diritti del memoir di Olivia grazie a quello stronzo del suo ex e alla pubblicità che le sta facendo: l’ex direttrice di VF e del New Yorker ha scritto le uniche righe favolose contro Nuzzi; se proprio dovete farvi pagare una newsletter, imparate a scrivere: «I paragrafi opachi, cadenzati, le folate di vento californiano derivative di Joan Didion, le goffe citazioni di gente come Jung: ma cosa cazzo, Olivia? “American Canto” è Ezra Pound con le extension»).

L’unica eccezione all’inesistenza della pubblicità negativa pare essere quella che riguarda Chiara Ferragni, che ormai nella slabbrata attenzione collettiva non è una che ha preso un cachet spropositato ma una che ha «rubato ai bambini malati» (ma chi, ma cosa). E tuttavia persino così riesce ancora a farsi pagare dai ristoranti di Brera per farsi filmare mentre porta lì la sua candela. Persino nel suo caso, la pubblicità negativa è pur sempre pubblicità.

Mi chiedo se a Chiara Ferragni convenga essere assolta o condannata. Se, come mi par di capire, perché non la condannino deve decadere l’ipotesi accusatoria che i suoi fan siano ontologicamente scemi – e quindi lei se ne sia approfittata – ipotesi esclusa la quale si passa da truffa aggravata a truffa semplice e mancando la querela di parte non si può procedere, per me l’assoluzione non le conviene: resterà sempre una prosciolta per un cavillo, l’Andreotti delle bionde.

Se invece la condannano, è martirio: un anno e otto mesi per essere stata poco chiara sul fatto che la donazione miserrima di Balocco non era legata a quanti scemi decidevano di spolverare il pandoro di zucchero rosa instagrammabile? Dai, su. Gli analfabeti, che non hanno mai imparato che quello attiene alle reincarnazioni, parlerebbero di «karma»; Mark Harris dice che quella di chi controlla i titoli di giornale «certo che l’universo lavorerà al posto tuo» e ti servirà la tua rivalsa è «vendetta passiva»: a me pare una tragica mancanza di passatempi. Li vedo, quelli che aspettano la condanna d’una bionda e il licenziamento dell’altra, e mi viene in mente l’omino di Altan: «Aspetto sulla riva del fiume. Passano solo amici».