Leggendo la notizia della pista ciclabile sul Ponte della Ghisolfa a Milano – quella che per anni è stata definita impossibile, pericolosa, complessa, e che ora improvvisamente si farà – ho avuto un déjà-vu. È una sensazione che chiunque faccia dell’attivismo conosce fin troppo bene.
È un copione trito e ritrito, ma recitato alla perfezione.
Inizia sempre con la mobilitazione della cittadinanza: comitati, associazioni o semplici cittadini che chiedono sicurezza, spazio, aria pulita. Dall’altra parte? Il muro, o peggio ancora, il vuoto. Istituzioni sorde, rimpalli di responsabilità, perizie tecniche, risposte evasive che arrivano solo dopo numerosi solleciti e mesi di attesa.
All’inizio però sei confortato; dicono che il problema verrà analizzato e risolto. C’è da studiare, sperimentare. Poi però, alle parole non seguono i fatti. E allora di nuovo solleciti, chiedi e riparte il logoramento. Chi si batte per un attraversamento pedonale, per una ciclabile o per togliere le auto dal marciapiede arriva ad essere etichettato come “il solito rompicoglioni”.
Non sei più un cittadino preoccupato, sei quello che ignora come funziona la politica, le sue modalità ed i suoi tempi. Diventi un talebano, uno di quelli che dicono sempre no, di quelli ideologici.
A quel punto, quando le risposte non arrivano più, si cambia strategia. Si passa alle uscite pubbliche, lettere ai giornali, flash mob (ne abbiamo raccontati tanti anche qui su Bikeitalia). La fatica si accumula, l’entusiasmo si scontra con l’indifferenza della macchina amministrativa.
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Poi il colpo di scena: il progetto si farà. Senza preavviso scopri che quello che chiedevi da anni sarà realizzato. E tu non ne sapevi nulla. L’opera che era tecnicamente impossibile diventa strategica. L’amministrazione convoca la conferenza stampa, presenta i rendering, sorride ai fotografi. E qui scatta la seconda parte del problema, il merito. Non una parola viene spesa per chi ha lottato, per chi si è battuto sul tema per anni, per chi ha tenuto alta l’attenzione. Né in pubblico ma nemmeno in privato in via confidenziale. La medaglia se l’appunta l’amministratore di turno, quello che fino al giorno prima pareva ostacolare il cambiamento.
Questo meccanismo perverso, secondo me, rivela un problema profondo nel modo in cui la politica odierna, intende la partecipazione. L’autoreferenzialità.
Sembra che le amministrazioni fatichino moltissimo a rendere davvero partecipi le persone che sollecitano i problemi. Anzi, spesso il cittadino attivo, quello competente che studia le delibere e propone soluzioni, è visto come un fastidio, un ingranaggio che stride nel motore del consenso.
L’impressione è che l’unico modo di intendere la partecipazione sia quella dei “Signor Sì”. Cittadini che non contestano, che non criticano le linee intraprese, che si limitano ad applaudire le inaugurazioni senza chiedere perché ci sono voluti dieci anni per dipingere una striscia per terra. La conseguenza? Facile e diretta: se l’attivismo diventa una corsa a ostacoli, il risultato è l’abbandono.
E non dovremmo stupirci se poi, quando si vanno a vedere le percentuali dei votanti alle elezioni, i numeri sono impietosi, inferiori al 50%. Strano? No, per nulla. È l’esito di una politica che ha smesso di considerare il cittadino come una risorsa, trattandolo o come un elettore passivo o come un fastidioso grillo parlante da sfinire per stanchezza.
Alla fine, dopo 2907 giorni di pressioni la ciclabile si farà e noi la useremo, certo. Ma resta l’amaro in bocca: se per ottenere un diritto bisogna trasformarsi in eroi o in martiri della burocrazia, significa che avremo magari guadagnato una città giusta e sicura, ma avremo perso per strada un pezzo fondamentale del concetto più alto di fare politica.
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