COSENZA – Una condanna che riapre una stagione di ferite ancora aperte.
Un servizio televisivo di pochi secondi può incidere sulla reputazione di una persona più di una sentenza. E quando l’informazione travalica i confini del dovere di verifica, a farne le spese può essere la credibilità stessa delle istituzioni. È quanto emerge con forza dalla sentenza emessa ieri dal Tribunale di Cosenza, firmata dalla giudice Erminia Ceci, che ha condannato la RAI per diffamazione a mezzo stampa, riconoscendo un cospicuo risarcimento all’on. Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria.
La decisione arriva a distanza di sette anni dal servizio del TG2 delle 13.00 del 17 dicembre 2018, legato a un’indagine della DDA di Catanzaro. All’epoca, nel pieno clamore mediatico, l’emittente pubblica presentò la notizia secondo cui Oliverio sarebbe stato indagato per abuso d’ufficio aggravato dal metodo mafioso, affermazione risultata priva di fondamento già dagli atti d’indagine. Da allora, la vicenda ha accompagnato il percorso giudiziario e politico dell’ex governatore, conclusosi con l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”.
Il cuore della decisione: una notizia alterata nei contenuti essenziali
La sentenza non lascia margini di ambiguità. La giudice Ceci rileva che la RAI diffuse un’informazione “evidentemente alterata nella sua essenza”, ingenerando nel pubblico la convinzione erronea che Oliverio fosse coinvolto in un reato aggravato dal metodo mafioso. Nel servizio in onda, la barra in sovraimpressione sintetizzava in modo ancora più netto: “indagato per abuso di ufficio aggravato dal metodo mafioso”.
Una circostanza che – come attestato tanto dalla Procura distrettuale quanto dal GIP di Catanzaro – non figurava né tra le contestazioni né nel provvedimento cautelare. Proprio per questo, il Tribunale ha censurato l’operato dell’emittente pubblica, sottolineando che i giornalisti avrebbero dovuto verificare direttamente gli atti giudiziari. Un obbligo elementare, ma essenziale, nel trattamento delle notizie di rilevanza penale.
Il pronunciamento evidenzia come l’errore non possa essere derubricato a semplice imprecisione: la gravità della falsa aggravante, associata alla centralità del ruolo istituzionale ricoperto da Oliverio, ha prodotto un “danno eccezionale”, con ricadute profonde sulla sua credibilità politica e sulla sua posizione all’interno del Partito Democratico, condizionando scelte e candidature nelle successive competizioni elettorali.
Le reazioni: tra soddisfazione e ferite ancora aperte
L’avvocato Paolo Coppa, legale di Oliverio, esprime soddisfazione per una decisione definita “chiara” e capace di mettere a fuoco danni che, in larga parte, non potranno essere del tutto riparati. Il riferimento è alla “gogna mediatica” che, come confermato in più occasioni anche dalla Corte di Cassazione, ha accompagnato indagini poi rivelatesi infondate.
Lo stesso Oliverio, nelle dichiarazioni successive alla sentenza, parla di “un’iniezione di fiducia verso il ruolo della Giustizia”. La sua riflessione si sviluppa su due piani: da un lato la riconferma della sua innocenza, dall’altro la denuncia del “pregiudizio accusatorio” che avrebbe segnato quegli anni, alimentando un “tribunale parallelo” capace di generare una condanna mediatica prima ancora che giudiziaria. Il suo pensiero più doloroso, afferma, rimane quello che “anche un solo calabrese abbia potuto credere che Mario Oliverio potesse aver approfittato della cosa pubblica”.
«Ringrazio l’Avv. Paolo Coppa non solo per la professionalità e la competenza – ha detto testualmente Oliverio – ma anche per la sensibilità umana espresse per affermare verità e giustizia. Ho subito sulla mia pelle le conseguenze della gogna mediatica, sistematicamente collegata alle azioni giudiziarie nei miei confronti da parte della Procura diretta da Nicola Gratteri e ne conosco bene le ferite, profonde ed irreparabili, arrecate non solo alla mia persona, ma anche all’intera Calabria della quale ero allora il Presidente.
Azioni ingiuste, come sancito dalle sentenze che ne sono seguite, le cui motivazioni hanno non solo confermato la mia innocenza, ma anche evidenziato “un chiaro pregiudizio accusatorio” nei miei confronti. La gogna mediatica orchestrata è stata una condanna sommaria ad opera di un “tribunale parallelo” con licenza di “decretare” la morte civile di innocenti e dall’altra parte la promozione di scalate mediatiche e di potere.
Il pensiero che, a causa di quelle notizie diffuse dalla stampa, anche un solo calabrese abbia potuto credere che Mario Oliverio, carpendo la sua fiducia, possa aver approfittato della Cosa Pubblica, è stato il tormento più grande della mia intera esistenza. La nettezza delle motivazioni addotte nella sentenza del Tribunale di Cosenza conferma l’importanza della serietà, competenza e terzietà della magistratura giudicante e costituisce un indubbio contributo al recupero della credibilità dell’intera Magistratura”.
Parole dure, ma non rancorose, che collocano questa sentenza nel contesto più ampio del rapporto tra giustizia, stampa e opinione pubblica, uno dei nodi più delicati della democrazia contemporanea.
Informazione e responsabilità: una lezione che va oltre il caso Oliverio
Quella del Tribunale di Cosenza non è soltanto la decisione su una vicenda personale, ma un monito rivolto all’intero sistema dell’informazione. In un tempo in cui la rapidità del flusso mediatico spesso sacrifica la profondità della verifica, la sentenza richiama all’esigenza – tradizionale ma sempre attuale – di un giornalismo rigoroso, capace di coniugare tempestività e accuratezza.
Il caso Oliverio, con il suo carico di conseguenze politiche, professionali e umane, ricorda che l’errore giornalistico non è mai neutro: può alterare carriere, influenzare processi democratici, ridefinire la percezione della realtà. Restituire centralità alla responsabilità delle fonti e alla precisione delle notizie non è solo un dovere deontologico, ma un investimento sul futuro della credibilità pubblica.
