Sedici anni di carriera professionistica, al servizio di molti capitani, nove vittorie, 15 Grandi Giri e 27 classiche monumento disputate, sei squadre… sono i numeri di Davide Cimolai che ha deciso di lasciare le corse. E così ecco un altro ragazzo, dopo Gianluca Brambilla o Giacomo Nizzolo, che appende la bici al famoso chiodo.
Sarebbe però sbagliato sintetizzare la carriera di uno dei corridori più sensibili (e lasciateci aggiungere, educati) del gruppo solo con i numeri. “Cimo” è stato ed è molto, molto di più. Quando risponde al telefono il suo tono è squillante. «Sono felice»: è una delle prime frasi che ci dice. E si sente. Inizia subito a parlarci di progetti, di aver smesso per sua scelta e con serenità. E questo è un aspetto vitale.


Cimo, dunque, partiamo proprio da questi progetti che ci hai accennato. Ci sono due strade: un sogno a lungo termine e un’altra più concreta e a breve termine. Puoi spiegarci?
Uno è al di fuori del mondo sportivo, nel settore dell’agricoltura, un settore che mi è sempre piaciuto, ma per ora, poiché è davvero in alto mare, preferisco non parlarne.
E l’altro invece?
Mira a restare nel ciclismo. Non voglio abbandonare completamente il mondo delle due ruote. Sedici anni di esperienza professionale sono un bagaglio prezioso da non lasciare cadere nel vuoto e non lo voglio sprecare. L’obiettivo dunque è trasmettere la mia esperienza, in particolare ai giovani. Sto gettando le basi per aprire uno “studio” con il quale seguire ragazzi e atleti. Fargli vivere questo sport con professionalità ma anche con passione. L’annuncio arriverà quando tutto sarà pronto.
Parlaci un po’ delle ragioni del tuo ritiro. Quando hai cominciato a maturare l’idea nella tua testa?
Parto dall’inizio della stagione per dare un quadro completo e farvi capire bene. Avevo iniziato quest’anno con l’intenzione di correre un altro anno, quindi fino a tutto il 2026, ma la realtà è stata subito diversa dalle mie aspettative.


Si è rivelata una stagione difficile? Tu stesso ce ne parlasti a Trieste prima della partenza del campionato italiano…
In Oman ho avuto una brutta influenza che mi ha costretto a correre debilitato. Poi, anche se non avrei dovuto, ho continuato anche al UAE Tour visto che ero già lì. La squadra mi ha coinvolto all’ultimo e, credetemi, ho dato tutto e giocato di mestiere solo per finirlo. Idem con alcune corse dopo, tra cui la Strade Bianche e alcune classiche del Nord. Dovevo andare al Giro d’Italia, quindi sono andato al Romandia ed è successo il fatto più grave.
Quale?
Ho avuto una grave infezione al braccio, a seguito di una ferita che avevo trascurato. Vi dico solo che c’è stato bisogno del ricovero e ho rischiato l’amputazione del braccio stesso. Ma il problema maggiore, per assurdo, non è stato tanto il braccio, quanto le dosi massicce di antibiotici che ho dovuto fare.
Perché?
Mi hanno debilitato moltissimo. Per dire: io non avevo mai avuto un’otite in vita mia, in poche settimane ne ho avute tre. Questi problemi mi hanno impedito di raggiungere il 100 per cento della condizione, fatto essenziale per essere competitivo e divertirsi, specialmente a 36 anni.


E oggi, come dicono tutti i corridori, devi essere al top. Non puoi andare in corsa solo per costruire la condizione…
Esatto, proprio questo volevo dire. Di fatto sono stati tre mesi durissimi. Tre mesi in cui ho quasi smesso di correre. Sono andato a Livigno, sono riuscito a prepararmi bene e così ho affrontato discretamente alcune corse: Vallonia e Polonia. Ma in Polonia ho preso, come molti altri, il Covid in modo pesante. Alla fine questo accumulo di difficoltà fisiche e mentali soprattutto mi ha fatto capire che il percorso professionale era giunto al termine. E io avevo giurato fedeltà alla squadra un altro anno.
Però ti hanno spesso richiamato all’ultimo. Non credevamo saresti voluto restare in Movistar…
Non ero così disposto a cercare altre opzioni. Tra l’altro io sono un gregario, un uomo squadra. Non un leader che decide di fare questa o quella corsa. E per me questo significa essere pronti e disponibili quando ti chiamano. Essere professionali.
Quanto ha inciso anche la questione Gaviria che non ha rinnovato? Ricordiamo che tu eri, o saresti dovuto essere, il suo ultimo uomo…
Ha inciso parecchio. Ha inciso nella valorizzazione del mio lavoro di supporto. Forse con una vittoria in più le cose anche per me sarebbero cambiate. Tuttavia sono orgoglioso del mio impegno e del nuovo ruolo che mi sono ritagliato: stare vicino ai giovani, aiutarli a crescere. Attenzione però, non vorrei che passasse il messaggio che smetto con rimpianti o scuse. No, semplicemente la realtà è stata questa.


E con realismo hai fatto una scelta. Davide, invece come ha reagito la tua famiglia a questa decisione?
Avevo già accennato ai familiari e agli amici l’eventualità del ritiro. La mia compagna, Alessia, in tutti questi anni è stata il mio più grande sostegno, il mio punto di riferimento. Mi ha sempre incoraggiato a continuare, anche nei momenti più difficili, come per esempio dopo l’esperienza con Cofidis. Lì ho rischiato parecchio. Ma lei era sicura che sarebbe arrivata una chiamata da parte di un’altra squadra. Ora anche lei è felice della mia decisione… anche perché mi vedrà più spesso a casa. Anzi, se posso dirlo, è un mese che sono a casa e per certi aspetti era più comoda la vita da atleta!
“Cimo”, cosa ricordi dalla prima gara con i professionisti?
Ricordo il mio debutto nel 2010 al Tour de San Luis in Argentina. Ero con la Liquigas. Da dilettante ero abituato a vincere e a prendere vento in faccia solo per fare la volata. Al San Luis il mio capitano per gli sprint era Francesco Chicchi. Così subito mi ritrovai a tirare per chiudere sulla fuga. E a tirare per portarlo davanti allo sprint. In squadra però c’era anche Vincenzo Nibali. Succede che Vincenzo vince la crono e va in maglia… Ancora peggio per me! Davanti sin da subito per difendere il primato.
Insomma hai capito subito l’antifona!
Esatto, ho subito capito la differenza. Però è stato anche bello vedere come con i premi potevi fare più soldi del tuo dispendio. All’epoca passai in quello che era uno squadrone come Liquigas, ma partii con il minimo. Prendevo davvero poco. I premi in quegli anni erano ancora in contanti e tornai a casa con un bel po’ di dollari. Anche questa fu una sorpresa, ma bella!


E invece dal San Luis 2010 al Tour de Guangxi 2025, quanto è cambiato il tuo fisico?
Sostanzialmente le mie caratteristiche fisiche sono rimaste simili, ma negli ultimi anni, grazie a un allenamento in palestra oggi molto più continuo rispetto al passato, ho aumentato la mia massa muscolare. Mediamente un chilo in più… Il contrario di quel che accadeva un tempo.
E Davide, come uomo com’è cambiato nel tempo?
E’ cambiato il ciclismo, forse in modo più interessante. E con la maturità che ho ora, con l’impegno che ci ho messo negli ultimi anni, soprattutto con la voglia di faticare, con la sopportazione alla fatica, mi sono reso conto che prima avrei potuto, tra virgolette, impegnarmi di più. Non sono qui a dire che avrei vinto di più. No, le cose sono andate così e ne sono contento. Dico solo che all’epoca le cose mi venivano più facili. Facevo il mio, con grande impegno, però stop. Invece col senno di poi avevo un altro step per arrivare al 100 per cento. Mi sono reso conto che mentalmente ero “fragile”.
C’è stato un cambiamento graduale nella tua resistenza alla fatica oppure hai vissuto un momento spartiacque netto?
E’ stato graduale, ma me lo ha fatto capire il preparatore che ho avuto in Movistar, Leonardo Piepoli. Lui mi è stato davvero d’aiuto, mi ha fatto maturare, mi ha fatto vedere le cose in un’altra prospettiva. Anche gli allenamenti stessi, insomma. Analizzando come mi ero allenato gli anni precedenti, mi ha detto chiaramente che potevo fare di più a livello numerico durante la preparazione.


Qual è stata la corsa, in tanti anni di professionismo, che ogni volta ti emozionava di più? Quella che sentivi davvero?
La Sanremo – replica secco Cimolai – perché l’ho sempre sognata. Sarà che sono italiano, boh. Ricordo che, prima del Covid quando era ancora aperta ai velocisti, partendo da Milano non vedevo l’ora di arrivare sul Poggio sapendo che il dilemma era se fare la volata o tirarla. Capite: davo per scontato che avrei superato il Poggio. Oggi è impossibile. E poi anche il Fiandre mi dava forti emozioni. Ho avuto la fortuna di correrlo diverse volte e l’atmosfera che si vive lassù, ragazzi, è incredibile. E poi un corridore non è un vero professionista se non prova a fare e a finire un Tour de France.
Interessante: perché?
Ricordo molto bene il mio primo Tour, anche perché è quello in cui ho sfiorato il podio in una tappa. Poi sarà che l’ho vissuto con spensieratezza e non sentivo lo stress che genera la Grande Boucle. L’ho fatto cinque volte (dal 2013 al 2017, ndr) e ogni volta sono arrivato a Parigi. L’emozione di entrare sugli Champs Elysées è rimasta la stessa ogni anno. Questo è il ricordo più bello del Tour.


Visto che vuoi lavorare con i giovani, lasciamo a te la parola: se potessi dare un messaggio a un allievo che oggi inizia il ciclismo, cosa diresti?
Parto con un esempio. Quando a luglio mi ritrovavo a Livigno tanti anni fa, e lassù incontravo un allievo o uno junior gli dicevo: «Ragazzi, ma cosa fate quassù alla vostra età? Andate a mangiarvi una pizza al mare. Pedalate sì, ma rilassatevi in un altro modo, non venite a fare i professionisti». Ero di quella filosofia.
E di quella scuola…
Esatto, ma adesso che piaccia o no, il ciclismo è cambiato. Perciò oggi dico che già l’allievo deve essere mentalizzato a fare ciò che io facevo magari da under 23, se non nei primi anni da professionista. E’ tutto anticipato. Questa non è una cosa che mi piace, ma è così. E se vuoi fare il professionista devi accettarla, adattarti. A 20-21 anni devi essere già al top della carriera. Prima certe cose e certe mentalità si facevano e si avevano a 20-22 anni, adesso le devi avere a 15. Devi avere già il tuo sogno nel cassetto: passare professionista. Io ce l’avevo in mente a 18-19 anni. A quell’età avevo l’idea fissa di correre e diventare pro’. Oggi bisogna anticipare un po’ i tempi.