Belém, Brasile – Alla ricerca di una chiave di lettura, tra necessità e fragilità. La scelta di attraversare il Brasile per girare un documentario sull’Amazzonia (Hope) era il sogno – ora realizzato – di Roberta Bonacossa e Nadia Paleari, arrivate alla Cop30 di Belém dopo una settimana trascorsa nella foresta. Le giovani, insieme al regista Federico Fontana e al videomaker Andrea Scotti Rosato, hanno passato giornate immerse nei libri di portoghese per prepararsi a intervistare la popolazione locale. Non sarebbe stata una passeggiata, lo sapevano: notti all’aperto, centinaia di chilometri via terra e fiume, alloggi improbabili, per una spedizione che a inizio novembre ha condotto il gruppo nelle aree attorno alla città di Manaus, capitale dello stato di Amazonas. La sua storia comincia nell’Ottocento. Ai tempi, ad attrarre investimenti (e problemi) era la gomma, molto richiesta per applicazioni che andavano dai cavi transoceanici alla nascente industria automobilistica, e la cui produzione era legata agli alberi di caucciù.

Finita quell’ondata, l’economia locale precipita: a salvarla è il governo federale (all’epoca autoritario), intervenuto nel 1967 con la creazione una zona franca a fiscalità agevolata. Una mossa in grado di attirare nuovamente nugoli di industrie straniere che si sono insediate nei pressi di Manaus per produrre componenti elettroniche da esportare in Cina e Stati Uniti.

“Uno dei simboli più potenti di Manaus – dicono Bonacossa e Paleari a Wired – è il cosiddetto ‘encontro de dos aguas’, il punto in cui il Rio Negro e il Rio delle Amazzoni si incontrano, senza mai mischiarsi. Una particolarità dovuta a differenze di temperatura, velocità e composizione. Un equilibrio che esiste proprio grazie alla diversità. Una metafora perfetta di questa città e, forse, del Brasile stesso, forse proprio la rappresentazione dell’intrinseca convivenza tra opposti che si vede qui”.

Le due neodocumentariste sono alla prima esperienza nel campo: nella vita si occupano di consulenza per la sostenibilità e sono parte dell’associazione Change for Planet, di cui Bonacossa è presidente. Con altri colleghi, si aggirano da anni tra i padiglioni delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite. In Brasile hanno percorso un pezzo della Br319, la strada transamazzonica che collega Manaus a Porto Velho, tra i pochissimi varchi che rendono la città raggiungibile via terra. Ma non per le merci: gli unici approdi adeguati al traffico cargo passano via cielo e via fiume.

Hope sarà pronto ad aprile 2026

Per trovare i fondi per la realizzazione del documentario sull’Amazzonia, che si chiamerà Hope (speranza, in inglese), hanno fatto ricorso al crowdfunding, riuscendo a coprire le spese. L’uscita è prevista per aprile del prossimo anno, dopo una fase di post-produzione.

“Con il documentario vogliamo raccontare la complessità dei luoghi che abbiamo visitato, le storie che non si leggono nei dati, le connessioni profonde tra persone e territori. I punti di vista che sono spesso contraddittori e diversi tra loro, oltre alla grande verità: un’unica risposta non è mai possibile”. A Belém, raccontano, “abbiamo trovato un’energia che non ci aspettavamo”. La scommessa era quella di assistere a un evento storico, che avrebbe potuto portare il mondo fuori dall’era delle fonti fossili. Non è andata così, ma è bello averci provato.