Pietrangeli si è spento all’età di 92 anni, la sua immensa carriera dai dilettanti alla Davis del ’76
Nicola Pietrangeli è morto a 92 anni. Lunedì mattina la notizia: il grande tennista, primo italiano a vincere un titolo dello Slam, ha trionfato due volte al Roland Garros ed è arrivato al numero tre della classifica mondiale.
Fargli compagnia a colazione al bar del Tennis, affacciato sul campo del Foro Italico che porta il suo nome, significava partire con Nicola per un viaggio dalla Tunisia — dove era nato Chirinsky e madrelingua francese e russa grazie alla mamma profuga sposata con un conte, prima che con l’imprenditore Giulio Pietrangeli — fino a Roma, la sua città d’adozione («Quando sono arrivato non spiccicavo una parola d’italiano»), dove ha appeso la racchetta al chiodo ottantuno giorni dopo il 92° compleanno, che aveva scavallato l’11 settembre. Già estremamente malato, fiaccato dalla scomparsa prematura del figlio Giorgio a causa di un tumore al cervello, prostrato al punto da considerarsi superfluo: «Dovevo andarmene prima io, non è giusto…». Ma Nick è Nick, e sarà per sempre il nostro Nick. Ed è giusto ricordarlo soprattutto per l’esuberanza di cui ha iniettato le pagine del suo lungo romanzo, scritto sotto i nostri occhi. Fino alle novanta primavere, infatti, ancora affascinante e sornione come la storia ce l’ha consegnato, con l’understatement che si era sempre rifiutato di frequentare aveva soffiato le candeline sulla torta a modo suo: in diretta tv sui canali nazionali.
Se n’è andato alla fine di una delle più trionfali stagioni del tennis italiano (il tempio di Wimbledon profanato da un predestinato venuto al mondo a Sesto Pusteria, azzurre e azzurri campioni del mondo in Billie Jean King Cup e Davis), nel pieno svolgimento della solenne messa pagana intitolata all’eroe moderno a cui si è paragonato con ostinazione: Jannik Sinner. Nella sua epoca, a cavallo di 18 lustri intensamente vissuti, Nicola Pietrangeli è stato tutto: un formidabile tennista di classe impareggiabile, il primo italiano ad annettersi un titolo dello Slam (due volte Parigi, nel ’59 e nel ’60 ma teneva moltissimo anche al trionfo in doppio con l’amico Orlando Sirola sulla coppia aussie Emerson-Fraser e in misto accanto all’inglese Bloomer), due volte re di Roma (’57 e ’61) e a lungo nei top 10 della classifica mondiale quando il ranking non era affidato alle algide logiche del computer ma ai ragionamenti degli sport writers anglosassoni, Lance Tingay del «Daily Telegraph» e Ned Potter di «Tennis World»: quel n.3 in singolare di cui l’avevano accreditato se l’era tatuato sottopelle e l’ha rivendicato finché ha avuto un grammo d’anima in corpo, lanciando dall’empireo una sfida orgogliosa e impossibile a Sinner, fuoriclasse del tennis contemporaneo, non certo del suo: «Bravo, per carità, però non gli basteranno due vite per superarmi».
Il tempo libero in cui non si godeva il presente, infatti, il golf, la Lazio (giocò tre anni nelle giovanili con Maestrelli a Tor di Quinto), i tre figli avuti dall’unica ex moglie Susanna, i due nipoti (una, femmina, chiamata Nicola per un ottimo motivo: perché il marchio non scomparisse) e i gatti, Nick l’ha trascorso impegnato in un personalissimo braccio di ferro con un passato che credeva non gli avesse restituito abbastanza, né in termini di soldi («Oggi se perdi al primo turno dell’Open Usa prendi 80 mila dollari, a me quando vincevo a Montecarlo regalavano una medaglietta!») né di popolarità; e non era sempre bonario nel rivendicare il maltolto, soprattutto quando vedeva definire la sua nemesi, Adriano Panatta, «il migliore tennista italiano» (pre-Sinner naturalmente). Lo spartiacque tra dilettantismo ed era Open lo costringeva in uno spazio temporale che a Pietrangeli stava stretto come una camicia di forza e benché la sua primogenitura e le sue conquiste siano nei libri, Nicola riteneva opportuno mettere i puntini sulle «i» a ogni piè sospinto, condendo i racconti con aneddoti strepitosi (quando giocava a tennis con il padre Giulio internato in un campo di prigionia dopo l’occupazione alleata della Tunisia), sacrosante rivendicazioni (lo scontro con il governo Andreotti per portare la squadra di Davis nel Cile di Pinochet), conquiste femminili sognate («Porto a cena Edwige Fenech, al tavolo accanto c’è Luca di Montezemolo: glielo presento e mi do la zappa sui piedi da solo!») e avute («In vita mia ho amato quattro volte: Susanna la madre dei miei figli, Lorenza che mi ha lasciato perché non la sposavo, Licia Colò che ancora non ho capito perché se n’è andata e Paola»), paragoni impossibili («Federer il più forte di tutti i tempi, Rod Laver il migliore che abbia mai affrontato ma sulla partita secca Lew Hoad era imbattibile»), risate corte e definitive come una volée.
Quella Davis che aveva sfiorato due volte da giocatore (Australia-Italia 4-1 nel ’60 e 5-0 nel ’61), l’aveva conquistata da capitano nel ‘76. Il Cile della dittatura, le magliette rosse di Panatta e Bertolucci in doppio (ma con la tv in bianco e nero nessuno se ne accorse), la battutaccia a tavola nell’hotel di Santiago che aveva spinto il venerando maestro Belardinelli ad alzarsi di scatto, infuriato, e a schiantarsi contro una vetrata che non aveva visto. Il ritorno nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica italiana, la giusta attenzione per quell’impresa meravigliosa ricevuta quasi cinquant’anni dopo, grazie alla docuserie «Una squadra» di Domenico Procacci, capace di togliere oltre ogni tempo limite la polvere a Pietrangeli e agli azzurri, ma anche di riaprire antiche ferite e riaccendere inveterati rancori. Fotografie che non si stancava mai di condividere.
Larger than life lo definirebbero gli americani, che avrebbero scolpito quella faccia dai lineamenti fanciulleschi, illuminata da due fari azzurri, nel granito del Monte Rushmore, tra i presidenti. Da noi Nicola Pietrangeli, oltre che icona, è stato l’amico di una vita di Lea Pericoli (mai innamorati però), uomo della comunicazione di grandi brand, frequentatore di vip e potenti (uno su tutti: il principe Alberto di Monaco, cui Nick nelle sue scorribande in riviera si onorava di dare del tu), conduttore tv, attore, ministro degli esteri della Federtennis di Angelo Binaghi, che lo piange (“Nicola è stato il primo a insegnarci cosa volesse dire vincere davvero, dentro e fuori dal campo”), inesauribile fonte di racconti quando aveva voglia di aprire il file della memoria elefantesca, a costo di far incavolare mezza Italia, a cominciare da Panatta. Una vertigine, mesi fa, l’aveva portato all’ospedale. Credeva di tornare il giorno dopo; è stato l’inizio della fine. Si era divertito ad immaginare il suo funerale: «Sul campo Pietrangeli, perché si trova facilmente posteggio; due preti, cristiano e ortodosso: sono russo, ricorda? Musica di Sinatra, che conobbi al torneo di Indian Wells. E se piove si rimanda: non vorrei che le signore si bagnassero le scarpe». E fino all’ultimo non si è capacitato di come i giovinastri contemporanei — Berrettini finalista a Wimbledon 2021, che gli tolse il record della semifinale sull’erba, e poi Jannik Sinner piovuto dal cielo dell’Alto Adige di confine —, potessero attirare più luce di lui, il principe Nicola Chirinsky Pietrangeli, il solo italiano insieme a Gianni Clerici ad essere stato ammesso nella Hall of Fame di Newport.
Non hai capito che possiamo anche avere occhi per Sinner ma il cuore è per sempre riservato te, caro Nick. Senza la tua dolcezza livorosa, vivremo nel culto dei ricordi.
1 dicembre 2025 ( modifica il 1 dicembre 2025 | 09:43)
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