di
Aldo Cazzullo

Il libro di Marco Bonarrigo: il campione dietro lo staff e la timidezza. «Il soprannome Marziano mi fa ridere, nel ciclismo non esistono i superpoteri»

Prima di conquistare i suoi due Tour de France, Ottavio Bottecchia scampò alla malaria e agli attacchi con il gas fosgene dell’esercito austriaco sul Carso durante la Grande Guerra. Gino Bartali ne vinse due dopo aver rischiato la vita a trasportare salvacondotti per i cittadini ebrei, Fausto Coppi fece il bis all’uscita dei campi di prigionia tunisini e algerini dov’era rimasto internato venti mesi. Jacques Anquetil visse (e morì) come una star del cinema, Eddy Merckx scampò al tragico incidente di corsa che costò la vita a un amico e collega. La bicicletta evitò che Bernard Hinault e Miguel Indurain, figli di contadini, si dovessero spezzare la schiena nei campi della Bretagna e della Navarra. I pochi miti assoluti della storia del ciclismo hanno in comune — oltre a palmarès impressionanti — vite da film.

Alla fine del 2025, a soli 27 anni, Tadej Pogacar è entrato di diritto nel ristretto circolo dei miti appaiando (e per qualcuno superando) per quantità, qualità e serialità delle vittorie Eddy Merckx. I paragoni sono impossibili, Coppi e Bartali lottavano contro strade infernali con trespoli rudimentali, Anquetil dominava pur pasteggiando ad ostriche e champagne, Merckx era forza bruta sui pedali. 



















































Alle spalle di Tadej c’è invece uno staff di sessanta persone con un budget stellare e un supporto scientifico avanzatissimo mente lui, figlio di un impiegato e di un’insegnante di francese, ha avuto un’infanzia felice nella campagna slovena. 

Scritto da Marco Bonarrigo, storica firma del ciclismo del Corriere, «Pogacar, il Re Schivo» (Solferino) è un viaggio nella vita del nuovo mito del ciclismo mondiale, che parte dall’infanzia e si dipana lungo le cinque stagioni in cui Tadej è diventato monarca delle due ruote.

Un lavoro non semplice: faticoso costruire un’epopea del riservatissimo Pogacar, sfuggendo a un racconto che non sia enumerazione dei suoi successi, di distacchi record, di tempi di scalata spaziali, dei suoi devastanti attacchi in montagna. 

Tadej Pogacar detto Pogi è un ragazzo timido ed educato che in cinque anni di carriera ha concesso pochissime interviste e di quelle che costringono i cronisti a virgolettare anche le smorfie per chiudere il pezzo. Non odia nessuno, non si lamenta mai, non reagisce nemmeno se provocato, non fa il gradasso, non ha passioni al di fuori della bicicletta, lancia borracce ai bambini anche quando è all’attacco, è fidanzato da sempre con Urska che parla la sua lingua e ha la sua stessa riservatezza e fa il suo stesso lavoro. 

Lontani i tempi in cui i corridori si confessavano con i cronisti nelle camere d’albergo durante i massaggi, il fenomeno Pogacar è blindato da un ufficio stampa che riduce al minimo il disturbo dei giornalisti consegnando loro audio e video pronti per l’uso. 

Eppure, scavando, Tadej Pogacar viene fuori come un personaggio vero, erede di una tradizione solidissima.

«I nostri eroi — spiega nel libro Primoz Cerin, il primo professionista del ciclismo sloveno — erano i vecchi ciclisti jugoslavi, che chiamavamo “partigiani” perché andavano alle corse come in battaglia. Combattenti feroci, sconosciuti al mondo occidentale, che non avevano paura di niente, mangiavano e si allenavano come negli anni Quaranta: litri di caffè, uova crude prima del via e ore a pestare sui pedali prima di tornare a casa su pulmini scassati: Franc Škerlj, Cvitko Bilić, Bojan Udovič. 

Pogi ha un talento smisurato, unico, ma per capirlo fino in fondo bisogna conoscere noi sloveni. Siamo pochi, siamo testardi, siamo orgogliosi. E vogliamo sempre fare meglio di chi ci ha preceduti per affermare la nostra identità, un’identità nazionale giovanissima che fino a trent’anni fa ci era stata negata, che si tratti di ciclismo, di basket o di produrre vino».

Quello che non sappiamo di Pogacar è come fu scoperto bambino quando si infilava nelle gare dei più grandi per batterli, com’è cresciuto (ce lo raccontano cinque corridori italiani che hanno incrociato le ruote con lui dai quindici ai vent’anni, senza poi riuscire a passare al professionismo) senza le stimmate del fuoriclasse assoluto, come si allena, chi lavora con e per lui.

Nel libro scopriremo perché lo scorso luglio scalando l’Hautacam, cima «maledetta» dei Pirenei, Pogi ha spazzato via in 35 minuti di scalata tutti i record malati del ciclismo degli Anni Novanta e Duemila e perché — dati alla mano, in uno sport per decenni devastato dai sospetti soprattutto su chi domina — possiamo provare a credere alla genuinità delle sue imprese. Come ci credono i quattrocento ragazzini del suo club che ha sede nel minuscolo borgo di Klanek e dove Pogi ha lasciato — invece di portarsele a casa — tutte le coppe, tutte le bici, tutte le maglie vinte, perché chi le guardi possa ispirarsi e sognare.

«Il soprannome Marziano mi fa ridere. Sono nato dalle parti di Lubiana, mica su Marte — ha spiegato a Bonarrigo —. Nel ciclismo non esistono superpoteri, ogni corsa è una sfida con gli altri, ma soprattutto con te stesso, che devi affrontare con forze limitate. Ci sono giorni in cui vorrei non dovermi alzare dal letto, in cui penso che non riuscirò proprio ad alzarmi dal letto e invece devo pedalare in montagna per duecento chilometri con lo stomaco rovesciato e le gambe che fanno male. Ai veri supereroi non fanno mai male le gambe: si svegliano, indossano la tutina e volano via».

1 dicembre 2025