Il piano in 28 punti di Trump, letto con le lenti degli affari, è meno un piano di pace e più un business plan geopolitico. Non sorprende: a scriverlo non sono stati i diplomatici, ma un immobiliarista come Steve Witkoff e un manager come Kirill Dmitriev. È la diplomazia trasformata in deal, in contratto, con Trump come capotavola. Il cuore economico resta intatto anche nell’ultima bozza: un fondo da 300 miliardi di dollari alimentato dagli asset russi congelati e dai finanziamenti europei, con profitti divisi al 50% per gli americani.

LE RISORSE

Gli Usa entrano ovunque: nei cantieri della ricostruzione, nelle reti energetiche, nelle infrastrutture critiche, negli stoccaggi del gas, nella filiera degli armamenti. E soprattutto nelle miniere: litio, titanio, manganese, terre rare. Il piano prevede, non formalmente, ma nella logica dei “progetti congiunti”, la presenza di ingegneri e operai americani come garanti di sicurezza dei siti. Risultato: i giacimenti ucraini diventano asset controllati di fatto da Washington. È la versione mineraria dell’ombrello militare Usa. Sul fronte energetico, la centrale di Zaporizhzhia è lo snodo simbolico: tornerebbe a produrre a metà per Ucraina e Ue e a metà per la Russia.

Un paradigma che si ripete per gasdotti, stoccaggi, mercati dell’elettricità. Per Mosca è un rientro morbido nelle catene del valore occidentali. Per gli Stati Uniti, una rendita pluriennale su energia e materie critiche. Per l’Ucraina, un ritorno alla capacità produttiva, ma sotto tutela, con garanzie estese ai traffici via mare e via fiume. Le armi rappresentano un capitolo a parte. Il piano limita le capacità offensive ucraine e introduce clausole di sicurezza Usa non più a fondo perduto. Kiev rinuncia a una quota della propria autonomia militare ma diventa cliente stabile: sistemi antimissile, difesa aerea, addestramento. Washington vende protezione, incassa contratti e consolida il suo controllo strategico. America first, coerentemente. Mosca, con la fine della guerra e l’allentamento delle sanzioni, avrebbe spazio per riarmarsi grazie a nuove entrate energetiche. L’industria bellica di entrambe le potenze ci guadagna.

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IL CONTO

E l’Europa? Qui il “28 punti” è spietato. A Bruxelles resta gran parte dei costi: contributi alla ricostruzione, finanziamento del nuovo fondo, copertura del rischio politico di un’Ucraina parzialmente commissariata (non va dimenticato che finora gli stipendi pubblici sono stati pagati dall’Ue). In cambio ottiene una quota dei lavori: infrastrutture, scuole, ospedali, reti digitali. Poco rispetto al conto complessivo. L’ombrello di difesa americano diventa condizionato e costoso. La leva degli asset russi congelati si riduce drasticamente. Per Mosca il vantaggio è duplice: rientro nei circuiti internazionali e progressivo scioglimento del nodo sanzioni, una via d’uscita dall’economia di guerra che finora ha tenuto a galla il sistema. Per gli Usa il guadagno è triplo: profitti diretti, controllo sulle risorse critiche, primato nella sicurezza regionale. Per l’Ucraina resta la pace, ma con settori strategici della sua economia in mano a consorzi esterni. Il piano ridisegna l’economia del dopoguerra parlando la lingua dei flussi di cassa più che quella della sovranità. Una pace a pagamento, forse l’unica possibile.


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