Sono abbastanza vecchio da ricordare quando i romanzieri erano famosi. Tipo che si litigava per difendere Gadda contro Moravia, Pasolini contro Calvino. E poi c’era Sciascia. E Berto e Parise e Manganelli che erano i più bravi. E Bianciardi che dava a fuoco al mondo editoriale sfottendolo nella Vita agra e Flaiano, il giornalista più bravo di tutti, che sfotteva tutti «Allora gli ho detto: “Senta Agnelli, faccia pure quante automobili vuole, tanto io non ho la patente”».
Lo scrittore era un’autorità morale, sociale, politica, persino sessuale. Gadda scriveva come se la sua esuberanza linguistica e stilistica fosse il mezzo per conoscere il caos del mondo. Calvino giocava con la leggerezza come uno Jedi con la Forza.
Eco e gli anni Ottanta
Poi arrivò Umberto Eco. E il Gruppo 63 – quella tribù di geniali sabotatori del racconto: scrivevano romanzi freddi, di avanguardia glaciale, illeggibili (altro che Joyce) – fu tradito dal più intelligente dei suoi, che, come Mosè con la Torah dal Sinai, calò da Monte Cerignone (vicino a San Leo, provincia di Pesaro e Urbino, dove faceva le vacanze) con Il nome della rosa e vendette cinquanta milioni di copie. Di cui sei in Italia. Un un giallo coi monaci medievali che schiantò con un grande e potente racconto l’asfittico immaginario narrativo del Gruppo 63, intrappolato nelle spire dello sperimentalismo linguistico e formale.
Era l’80. Lo stesso anno in cui Pier Vittorio Tondelli pubblicò Altri libertini per Feltrinelli. Racconti. Giovani. Droghe. Tra Kerouac e l’autostop per andare a ballare a Rimini. E quando nel 1986 nacque il progetto Under 25, con le tre antologie di racconti Giovani blues, Belli & Perversi e Papergang per Transeuropa di Massimo Canalini, Tondelli decise che sì, non c’era niente di male, si poteva raccontare. Persino se stessi. Persino se si veniva da Correggio. Anzi si doveva.
I tre comandamenti della pedagogia tondelliana per i giovani furono:
Racconta il tuo vissuto, anche se include il muretto davanti alla stazione e un motorino truccato.
Riscrivi, ché la prima stesura è sempre l’orrenda verità.
Leggi, ché sennò finisci per assomigliare a chi ti bullizzava al liceo.
In altri termini: la scrittura come espressione del proprio vissuto; la riscrittura come esercizio stilistico; la lettura quale base per l’arricchimento espressivo.
Poi venne Baricco, che raccontò i suoi primi romanzi e fondò a Torino la scuola Holden. Dove si insegna che raccontare può diventare addirittura un lavoro. /Narrazione/ diventa una delle parole più inflazionate e stereotipe del giornalismo e dei talk show italiani.
Oltre la nostalgia
L’altro giorno ho letto sul NYT un editoriale di David Brooks, intitolato When novels mattered (Quando i romanzi contavano). Inizia così. «Quando ero al college, negli anni Ottanta, i nuovi romanzi di Philip Roth, Toni Morrison, Saul Bellow, John Updike, Alice Walker e altri erano eventi culturali. C’erano recensioni, controrecensioni e discussioni sulle recensioni».
Non è solo nostalgia sua e mia a dettare questo. Tra la metà e la fine del XX secolo, la narrativa letteraria attraeva un pubblico enorme. Quando l’uscita del nuovo Philip Roth provocava più scalpore di un tweet di Donald Trump. Portnoy’s Complaint, nel 1969, fu il libro più venduto in America: una seduta di psicoanalisi trasformata in monologo comico, anarchico, impudente. La prima stand-up letteraria, molto prima di Netflix.
In italiano Il Iamento di Portnoy nell’edizione Einaudi. Ora è tornato, per Adelphi, come Portnoy e basta, con illustrazione di Al Capp e copertina da fumetto sexy. È uno dei libri più divertenti mai scritti. (Un po’ come Le avventure di una ragazza cattiva di sua maestà Mario Vargas Llosa, Einaudi, o La versione di Barney, romanzo dello scrittore canadese Mordecai Richler, la vita allegramente dissipata e profondamente scorretta di Barney Panofsky, personaggio fuori misura, indifferente a tutto ciò che ottunde la vita. Un’altra delle storie più divertenti che ci siano mai state raccontate. Anche questa volta per le cure adelphiane di Matteo Codignola).
Lolita di Vladimir Nabokov, da rileggere ogni volta che potete, Adelphi, è stato il terzo libro più venduto nel 1958 e Il Dottor Zivago di Boris Pasternak – appena rieditato nella collana celebrativa dei 70 anni della casa editrice Feltrinelli – è stato il primo negli Usa. O in Italia Io e lui di Moravia, libro scandaloso nel 1972 per il solo fatto di parlare del fallo (il proprio), e che oggi, con l’autofiction imperante, suonerebbe come un diario sul telefonino.
Bene, oggi si parla soprattutto di romance, romanzi fantasy, saghe di grandi famiglie e narrativa di genere. Non ho problemi con i libri di genere (alcuni scrittori di genere erano grandi scrittori, degni di figurare nelle collane dei classici: Georges Simenon, Agatha Christie, Stephen King, Philip Dick ora nei Meridiani Mondadori) e popolari (Camilleri e Manzini sono grandi scrittori), in generale con l’intrattenimento, ma dove sono F. Scott Fitzgerald, Jane Austen, David Foster Wallace o Michel Houellebecq di oggi?
Prigionieri dell’autofiction
La storia che racconterei sul declino della narrativa letteraria, di libri e di lettori, piuttosto stanchi, dai dati che vediamo hanno cominciato scappare, è questa. Mi pare di assistere a un paesaggio simile agli anni Ottanta, con gli scrittori prigionieri non più del loro narcisismo metalinguistico, ma della ripetizione infinita dell’autofiction (i fatti loro), delle loro beghe familiari, dentro una ramificata struttura della parentela tra nonne, zie, sorelle, bisnonne, e una narrativa che pare scritta da gente che ha paura di uscire di casa.
È come se l’immaginario letterario italiano si precludesse di raccontare il mondo, di inventare storie e personaggi che possano interessare e incuriosire i lettori.
Non si racconta più il mondo. Ci si racconta addosso.
Non sto dicendo che i romanzi siano peggiori oggi. (Nessuno sa come misurare la qualità. I libri brutti sono sempre quelli scritti dagli altri). Sto dicendo che la letteratura tutta gioca un ruolo molto più marginale nella nostra vita e nella nostra cultura.
Colpevoli internet e i social che hanno distrutto la capacità di concentrazione di tutti. E la lettura, con buona pace dei festival, delle presentazioni, delle letture in teatro e dei book club, è un’attività solitaria che richiede concentrazione, tempo, silenzio. Lussi inestimabili. Non costano nulla, concediamoceli questa estate.
Viviamo, almeno da un decennio, in un periodo di immensa controversia pubblica e geopolitica cartografata da pandemie, guerre, catastrofi ambientali. La nostra vita interiore è stata travolta dalle onde d’urto di questi eventi. C’è stata una perdita totale di senso. Gaza, Putin, Trump che distrugge Harvard.
Mi piacerebbe leggere romanzi che catturino questa temperie. Eppure, a volte, quando sbircio nel mondo letterario, mi sembra una sottocultura marginale. Una specie di Rotary dell’io. Ma forse è ancora possibile – tra un algoritmo e Temptation Island – scrivere qualcosa che conti. Magari cominciando da qui: rinunciare al tinello e tornare al mondo.
Quali sono i romanzi migliori che avete letto quest’anno? Ne parleremo. Scrivete a lettori@editorialedomani.it.
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