«Sulle pareti, se guardi bene, ci sono sempre dei chiodi, perché a seconda dell’umore, e di ciò che arriva, i pezzi variano. Colleziono arte, perché mi dà energia, stimoli. È il mio parametro di riferimento per la bellezza. E quindi la colleziono a prescindere dal posto in cui la metterò. Qui non c’è niente che sia nato appositamente per questa casa». Neppure il Capriccio del Canaletto nel salone, un medley delle architetture di tutta Italia, probabilmente, Padova, Roma eccetera. «Di riconoscibile c’è, unico riferimento veneziano, la Marciana. Ma Canaletto, che forse era in lite con la biblioteca, ci mette una lavandaia che stende i panni. Una piccola vendetta che trovo molto divertente», racconta Bombassei. A fare da contrappunto all’opera del vedutista, un’altra non figurativa, un layer di colore totalmente nero di Nathlie Provosty che dà l’illusione di tridimensionalità. Illusione, parola in cui Venezia sta a proprio agio. E con lei i suoi abitanti.

Sull’isola della cucina in legno, ottone e marmo su disegno di Bombassei, lampada Capanna di luce di Ettore Sottsass. Sospensione Poliedri di Carlo Scarpa (Venini, anni ’50).Foto Simon Watson. Styling Elena Mora. Produzione Amir Capogrossi Badreddine
Un progetto che ha riportato il palazzo allo stato originario
«L’ultimo rimaneggiamento importante della casa era stato fatto negli anni ’50 da un’americana che aveva comprato il palazzo dai Contarini: il portego, per esempio, era diviso da una parete per avere due situazioni, una zona pranzo e una salotto», racconta Bombassei. «Con la Sovrintendenza ho cercato di riportare tutto allo stato originario, demolendo superfetazioni, cambiando i rivestimenti delle pareti ma lasciando le pannellature ottocentesche e portando alla luce tracce di affreschi cinquecenteschi, scale interrotte, insomma 500 anni di storia… Il pavimento in seminato è quello originale: praticamente esiste da più tempo della scoperta dell’America. Sono questi parametri temporali che ti fanno capire che cos’è, veramente, Venezia».