di
Adriano Panatta

Il commosso addio di Adriano Panatta al suo capitano: «Non conoscevamo l’invidia, era il nostro modo di essere. Ma con lui bisognava avere pazienza»

Rischierei di fare un torto a Nicola, se mi limitassi a dire che ho perso un amico. Eppure, nel corso delle tante storie comuni che potrei raccontare, delle volte infinite in cui ci siamo trovati dalla stessa parte della barricata, o al contrario, ai poli opposti di una polemica, l’amicizia non è mai venuta meno, un legame a suo modo curioso, ma unico e indistruttibile. La verità è che uomini come lui appartengono a categorie particolari, forse speciali, e non sono mai identificabili con una sola parola, anzi, ne esigono molte, perché rappresentano più cose insieme ed entrano nella vita degli altri da protagonisti. Ti possono piacere o meno, puoi condividerli o respingerli, ma ignorarli mai, non è possibile

Credo che un Pietrangeli ci sia sempre stato nella mia vita, qualche volta facendo appena capolino, o solo per l’implacabile gusto di dare corpo a una battuta, altre in modo plateale, o più etereo, con i suoi gesti, le sue frasi da reginetta della festa. E alla fine, negli ultimi giorni in cui lo sapevo malato, e ci siamo sentiti, con un pensiero, o una frase detta in tivù, nella speranza che gli arrivasse, e la sentisse. C’era quando nacqui, e mio padre, orgoglioso della sua prima paternità, volle annunciarlo a tutti i tennisti del Parioli. «Lo sapete? Sono diventato padre!». «E chissenefrega non ce lo metti?», la replica di Nick. C’era a Formia, quando studiavamo da tennisti con papà Belardinelli. «Allora, ragazzi, oggi fate due palle con Nicola»… Io aspettavo il momento, e poi via, andavo a rete. E lui, «a ragazzì, ma che fai? M’attacchi?». 



















































C’era agli Assoluti, quando lo sconfissi, e subito dopo quando andammo insieme all’estero per qualche torneo di cui c’importava pochissimo, perché facevamo i fighi tra attori e modelle, e lui lì era davvero il Maestro, mentre io solo l’allievo che prometteva bene. C’era quando vinsi Roma e Parigi, e quando andammo in Cile per la finale della Davis, che lo vide battersi in decine di trasmissioni televisive. E dopo, più avanti, di nuovo a Parigi, quando ci faceva piacere andare a cena con Lea Pericoli. Era uno, Nicola, che diceva sempre ciò che pensava, solo che gli uscivano frasi più simili a epitaffi, e in tanti s’incazzavano. Ma era romano, che ce volete fa? Nato in Africa, ma romano vero. 

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Condividevamo una dote rara: non conoscevamo l’invidia, per nessuno. Non faceva parte del nostro modo di essere… Accidenti all’età, che distrugge le parti migliori di come siamo stati. Negli ultimi anni alcune sue dichiarazioni sono suonate meno comprensibili, a volte stonate, altre inutili. Su tutte certe sue sortite su Sinner, che venivano da quell’umanissimo bisogno di non sentirsi superato dalla Storia. «Co’ te bisogna avé pazienza», non so quante volte gliel’ho detto. «Ma come ti va di metterti a confronto con Sinner, ti ha superato, e allora? Non sei contento? Datti pace…». 

«Non mi hanno capito», si lamentava, «quel ragazzo è fortissimo, una meraviglia, io volevo solo dire che la strada resta lunga, perché così è nello sport, e non voglio che Sinner lo dimentichi mai». Eh, d’accordo, ma se lo dicevi così non era meglio? Niente, «co’ Nicola bisogna avé pazienza». Come quando ripeteva che la sua cacciata da capitano di Coppa fu un “tradimento”, e finiva per tirarmi in ballo. «Aridaje Nicò, era la squadra che non ti voleva più. Io cercai di farli ragionare, ma la decisione era presa, e davvero non mi potevo mettere contro i miei compagni, non l’avrei fatto mai».

 Eh, sì, vabbè… In quegli anni lontani, in cui il tennis ci mise di fronte, gli appassionati italiani e più ancora la stampa intravidero una rivalità che le differenze di età e quelle relative all’ambito del nostro essere sportivi di professione (lo fu anche lui, malgrado la sua resistenza nel restare dilettante fino all’avvento del Tennis Open) di fatto rendevano impossibile. Ci sfiorammo, e mi fu utilissimo farlo.

 C’erano 17 anni di differenza, io sapevo che la sua stagione doveva chiudersi, e lui sapeva che le cose sarebbero andate in quel modo, anche se l’istinto del campione lo portava a ribellarsi. La verità è che io lo cercavo, quando era possibile chiedevo ai responsabili dei tornei di fare in modo che c’incontrassimo. Insomma, avevo fretta di crescere… Ma gli appuntamenti che determinarono il cambio al vertice furono le due finali degli Assoluti del 1970 e 1971. Due match duri, ma non rabbiosi, che io vinsi ammirandolo. Era un grande campione, Nicola, giocava un tennis di stampo classico, ma già rivolto al futuro. Sapeva nascondere il rovescio, e accidenti se lo faceva bene. Il chop di dritto e il back di rovescio erano magnifici, lindi. Poi era solido, aveva gambe buonissime. 

Magari un po’ cauto, mentre io ero irruente, attaccavo, lo asfissiavo e andavo a sfidare il suo colpo migliore, che era il passante. Poi qualcuno cominciò a chiederci chi fosse stato il migliore, e figurarsi se lui non vi entrò dentro con tutte le scarpe. Tempo perso… Nicola fu tennista straordinario, nel 1961 superò Laver sulla terra battuta, a Torino, l’anno prima che Rodney conquistasse il Grande Slam. Ma il tennis ai tempi di Nicola era privo di strapazzi, a me toccò un’epoca molto infervorata, nella quale il mestiere prevaleva e i confronti erano aspri già dai primi turni. Poi c’era l’altro Nicola, quello che conosceva tutti e tutti conoscevano. Andammo in Sud Africa con Virna Lisi, e a Los Angeles ospiti di Anthony Quinn. E ce n’era ancora uno, combattivo e risoluto, che divenne indispensabile nei giorni in cui si decise se andare in Cile per la Davis. La decisione la presero altri, ma Nicola fu ugualmente imbattibile. Ho sempre pensato che la Storia che lui ha ricevuto da altri, l’abbia recapitata a noi, ragazzi degli anni Settanta. Spero sia successo anche tra noi e questa nuova generazione. Non lo so, qualcuno ci dirà… Gli mando un bacio. Gli ho voluto bene.

2 dicembre 2025 ( modifica il 2 dicembre 2025 | 08:09)