di Capital Web

Nel 1970 usciva il primo album omonimo dei Black Sabbath e il famoso critico musicale Lester Bangs scrisse la sua personale recensione fra le pagine della rivista Rolling Stone. Vediamo cosa scrisse del loro debutto discografico.

Agli albori degli anni Settanta, Rolling Stone era già il punto di riferimento per chi voleva comprendere le correnti sotterranee del rock, e Lester Bangs ne era la voce più spigolosa. Con il suo stile irriverente, capace di passare dal risentimento poetico alla battuta fulminante, Bangs non si limitava a giudicare i dischi: li smontava pezzo per pezzo per mostrarne le crepe nascoste. La sua penna, affilata come un plettro, faceva tremare sia le stelle nascenti sia i pilastri già consacrati del panorama musicale.

Quando i Black Sabbath calarono sul mercato il loro primo album (Black Sabbath, 1970), carico di riff oscuri e atmosfere sotterranee, si trovarono di fronte al recensore più temuto di tutti. Invece di applaudire il big bang metallico del quartetto di Birmingham, Bangs infilò l’LP in una galleria di critiche taglienti e trasformò quel debutto in un duello a colpi di sarcasmo. Esploriamo il cuore della sua recensione per capire come il disco, diventato poi un’icona dell’heavy metal, venne accolto con tanto scetticismo da uno dei critici più influenti dell’epoca.

La critica su ‘”Black Sabbath” firmata Rolling Stone

Nella sua critica all’album, Bangs fa subito intendere che non gli è piaciuto: “La mediocrità non è spesso un’insegnante di grandezza: quando è influente, la sua progenie di solito raggiunge nadir ancora più bassi. Ma nel rock, uno dei cui principi fondanti è che errori gloriosi possono dare vita a nuovi stili sorprendenti, tutto può succedere. Così è stato per il fenomeno Cream, tutt’altro che morto ancora oggi. Sebbene fossero essenzialmente un gruppo egocentrico di artigiani pigri che hanno affinato il loro considerevole talento ingoiando la propria fama, rastrellando manciate di soldi e vivendo la poco lusinghiera luce del giorno, hanno lasciato un’intera schiera di studiosi imitatori che stanno salpando, con visioni di superstar che danzano nelle loro teste, ancora oggi.”

Come vedeva i Black Sabbath

L’autore continua parlando del secondo album dei Gun e del primo dei Black Sabbath spiegando come, secondo lui, siano soltanto imitazioni mal riuscite di quello che avevano in mente di fare con l’ardire di sentirsi già delle rockstar come i Cream di Eric Clapton: “Gun e Black Sabbath sono due recenti aggiunte alla schiera, entrambe inglesi e che ben rappresentano i paradossi e le possibilità insite nello scontare la pena in una scuola del genere. Nel lato industrial del Cream country, si trovano manovali come i Black Sabbath, che venivano pubblicizzati come una celebrazione rituale rock della messa satanica o qualche altra sciocchezza del genere, qualcosa come la risposta inglese ai Coven. Beh, non sono poi così male, ma questo è tutto il merito che si può dare loro. L’intero album è una sciocchezza: nonostante i titoli poco chiari e alcuni testi insulsi che sembrano un omaggio sdolcinato dei Vanilla Fudge ad Aleister Crowley, l’album non ha nulla a che fare con lo spiritualismo, l’occulto o altro, se non rigide recitazioni di cliché dei Cream che sembrano imparati dai libri, ripetendosi con tenace perseveranza. Le voci sono scarne, la maggior parte dell’album è riempita da linee di basso lente su cui la chitarra solista sgocciola claptonismi lignei tratti dai giorni più stanchi del maestro con i Cream. Ci sono persino jam discordanti con basso e chitarra che barcollano velocizzati come chi fa uso di anfetamine sui rispettivi perimetri musicali, senza mai trovare la sincronia. Proprio come i Cream, ma peggio.

Partendo dal presupposto che Lester non fosse verosimilmente un gran fan dei Cream di Clapton, paragona i Black Sabbath alla loro peggiore imitazione. Insomma, per lui non promettevano niente di buono, come scialbe imitazioni di un prodotto già di per sé scadente. Nessuna scintilla d’ingegno, come se avessero studiato rock satanico su un manuale per principianti. Smonta la (possibile) strategia di marketing del dare alla band un’aurea da maledetti adoratori dell’occulto che niente hanno a che fare con la vera magia nera e che sembravano più il copione di un B-movie horror anni ’50.

Il verdetto finale

Il verdetto finale? “Uno shuck”: uno scherzo di cattivo gusto che, anziché deliziare con l’oscurità diabolica promessa, pecca di prevedibilità, non contenendo neanche una dose minima di creatività.

“Perfetto.”