Allegra Gucci ha ripercorso la sua storia familiare, intrecciata con uno dei casi più noti della cronaca italiana. In una conversazione raccolta da Michela Proietti per il Corriere della Sera emerge la complessità di un percorso segnato da lutti, fedeltà e fragilità che ancora oggi la spingono a proteggere la madre.

Il legame che resiste

Allegra Gucci ricorda come, nei diciassette anni trascorsi da Patrizia Reggiani nel carcere di San Vittore, lei e la sorella siano state l’unico presidio costante di affetto: «Le uniche persone che si sono prese cura di nostra madre siamo state io e mia sorella, dimostrandole affetto incondizionato». Nonostante la condanna e la complessità del rapporto, il legame non si è mai interrotto: «Io e mia sorella non abbiamo mai smesso di credere nella sua innocenza». Per Allegra il perdono è un percorso e non un atto immediato: «Per me è un percorso personale, non è solo una parola». Ma la volontà di occuparsi della madre resta salda: «Vorrei occuparmi di lei». Pur conoscendo la gravità delle accuse, le due figlie percepivano Patrizia come una donna segnate da malattia e fragilità: «La vedevamo come una donna ammalata, trasformata da un tumore al cervello, resa furiosa, fragile». Nel suo libro, Allegra definisce la sua genealogia una «sequenza concatenata»: padre assassinato, madre incarcerata, una nonna che definisce «una donna orribile». Anche loro, racconta, hanno vissuto una forma di detenzione morale: «Io e mia sorella siamo state incarcerate per 17 anni: due volte a settimana venivamo a Milano dalla Svizzera per portarle il pacco».