di
Mario Platero

Non c’è ufficialità ma il candidato unico sembra essere Kevin Hassett. Se davvero si insedierà, l’attuale capo dei consiglieri economici alla Casa Bianca, dovrà tenere fede alle sue promesse e tagliare i tassi di interesse

NEW YORK – Ci siamo. Donald Trump ha deciso il nome di chi sostituirà Jerome Powell alla guida della Federal Reserve il maggio prossimo, quando scadrà il mandato. Anche se non lo ha rivelato, a Washington si dà per scontato che il prescelto sia Kevin Hassett, il suo fedelissimo capo dei consiglieri economici alla Casa Bianca.

Del resto, tra ieri e oggi il Presidente aveva già detto pubblicamente un paio di volte di avere ormai solo un nome nella sua lista e Hassett, era già il favorito. Per cui, dovendo fare due più due e procedere con la pregiudiziale del tempo reale, necessaria con questo Presidente (l’altra notte ha postato 161 volte su Truth dicendo tutto e il contrario di tutto!!) oggi Hassett è il vincitore. 



















































Ci crede il mercato, che ha già reagito, seppure in modo blando, alla notizia, ci credono gli analisti economici, ci crede la Washington politica che conta. Con Trump è tuttavia d’obbligo usare il condizionale perché la decisione formale sarà annunciata a gennaio e da qui ad allora, conoscendolo, uno starnuto troppo rumoroso potrebbe anche fargli cambiare idea. 

Detto questo, meglio Hassett di Kevin Harsh, l’altro contendente più credibile – a 35 anni era stato nominato da George Bush come il più giovane membro del consiglio dei governatori della Fed, ha poi lavorato alla banca d’affari Morgan Stanley, ha le relazioni giuste (sua moglie Jane Lauder è la figlia di Ronald Lauder, repubblicano doc e vicinissimo a Trump) ma ha un peccato originale, non è un economista nel senso classico visto che ha un dottorato in legge. Profilo il suo più adatto alla guida del Tesoro che della Banca Centrale.

Eccoci dunque a Hassett, un esperto di politica fiscale con credenziali economiche indiscutibili sul piano accademico e professionale e con credenziali repubblicane doc un dottorato alla University of Pennsylvania in economia con Alan Auerbach, a sua volta allievo di Martin Feldstein, economista chiave nel partito repubblicano, già capo dei consiglieri economici di Ronald Reagan. Dopo il dottorato Hassett insegna a Columbia University, alla Business School, poi fa un’esperienza pratica al centro studi della Federal Reserve, come economista per le ricerche statistiche. Diventa consulente di politica economica al dipartimento al Tesoro con il primo presidente Bush e poi con Bill Clinton. 

È stato consigliere economico per la campagna repubblicana di John McCain, poi di George Bush Jr, poi di nuovo di McCain nel 2008 e di Mitt Romney nel 2012. Ha lavorato all’American Enterprise Institute, uno dei più accreditati think tank conservatori a Washington fino a quando Donald Trump non gli chiede di diventare capo degli economisti alla Casa Bianca nei primi due anni del suo primo mandato, dal 2017 al 2019. È Hassett a decidere di lasciare, ma è un uomo gioviale, dal sorriso aperto, intelligente nel cogliere gli umori e le sfumature politiche grazie a decenni di allenamento, resta in ottimi termini con Trump al punto da diventare per la seconda volta capo del consiglio economico degli economisti alla Casa Bianca per il secondo mandato Trump all’inizio di quest’anno. 

Credenziali perfette dunque sia sul piano accademico, che su quello istituzionale che su quello politico. Le possibili nubi legate alla sua vicinanza a McCain e Bush Jr, disprezzati da Trump, svaniscono negli anni di lavoro diretto con lui alla Casa Bianca.

A questo punto, da gennaio quando la sua nomina sarà ufficializzata, Hassett diventerà di fatto governatore ombra e a maggio, se davvero si insedierà, dovrà tenere fede alle sue promesse e tagliare i tassi di interesse come gli ha chiesto ossessivamente, sia privatamente che pubblicamente, Donald Trump. 

Strumentale alla nomina è stato il segretario al Tesoro Scott Bessent. Non vedeva di buon occhio Kevin Harsh, suo concorrente alla nomina al Tesoro che considerava troppo invadente. Con Hassett invece la sintonia è perfetta, ma se poi non ci saranno i tagli dei tassi richiesti da Trump sarà Bessent a pagare. «Mi fido di Bessent, ma se poi la nomina alla Fed non darà forti tagli dei tassi, Scott se ne andrà a calci nel sedere», aveva detto Trump qualche giorno fa con la sua proverbiale delicatezza. 

Arriviamo così al dunque, alla policy sui tassi. La verità è che l’inversione sui tassi è già cominciata con Powell dopo segnali di debolezza per il mercato del lavoro, per il settore manifatturiero e dopo rilevazioni rassicuranti sull’inflazione, scesa a stime del 2,3% contro un obiettivo, ormai a portata, del 2%. 

Powell ha già tagliato per la seconda volta quest’anno di 25 punti base i tassi sui fondi federali in ottobre e li taglierà quasi certamente di nuovo di altri 25 punti base alle riunioni del FOMC del 9-10 dicembre della settimana prossima. Se così sarà i tassi scenderanno su una banda di oscillazione del 3,50-3,75% rispetto al 3,75-4%. Hassett ha già detto che avrebbe favorito tagli più aggressivi di 50 punti base. Una parte dei 12 consiglieri della Federal Reserve che formano il Comitato monetario la vede allo stesso modo. 

Possibile che Powell proceda con altri tagli da qui a maggio? Possibile, e si potrebbe arrivare anche a quota 3%-3,25% lasciando poi a Hassett la decisione di continuare a tagliare. Ma quel punto, tra le pressioni tariffarie (oggettivamente per ora meno forti del previsto sull’inflazione) e altre pressioni inflazionistiche, Hassett dovrà confrontarsi con il suo mandato professionale in relazione a quello politico: resterà alla guida della Fed ben oltre la scadenza di Trump e dovrà pensare prima di tutto alla sua missione alla guida dell’istituzione più indipendente dalla politica e dunque più potente che ci sia in America. 

Almeno così si augurano in mercati che per ora hanno reagito in modo blando alle nuove certezze sulla nomina alla Fed, i rendimenti sono aumentati di poco e il dollaro ha avuto un sussulto di debolezza negli ultimi giorni quando si capiva che la nomina sarebbe stata decisa presto. Il 24 novembre la valuta americana si era rafforzata fino a 1.15 nei confronti dell’euro. Ma poi è tornata a indebolirsi, prima su quota 1.16 e ieri su quota 1.17 su cui si è stabilizzata. Il livello più basso del dollaro nel recente ciclo congiunturale è stato a quota 1.18 il 3 luglio scorso. Ma Trump non vede un dollaro forte nel suo disegno MAGA: anche se fosse più debole sarebbe ben felice, visto che renderebbe le esportazioni americane più competitive e le importazioni più care, a danno, ovviamente, dell’Europa.

3 dicembre 2025