Quella che sembrava una tipica vicenda di assenteismo si è trasformata in un problema ben più serio per il Comune di Curtarolo, nell’Alta Padovana. Il Garante per la protezione dei dati personali ha infatti comminato una sanzione da 15 mila euro all’amministrazione per aver trattato in modo illecito i dati di una dipendente licenziata dopo un’indagine interna basata su riprese video.
Le immagini della videosorveglianza
Tutto era iniziato quando le videocamere posizionate all’interno e all’esterno del municipio avevano registrato movimenti ritenuti sospetti. Incrociando filmati e dati di presenza, l’ente aveva documentato diversi episodi: ingressi e uscite dal municipio durante l’orario di lavoro non correttamente registrati, soste all’esterno dell’edificio per motivi personali, comportamenti giudicati non compatibili con lo stato di malattia dichiarato. Questi elementi avevano portato al licenziamento della dipendente.
Riprese anche in periodo di malattia
Ulteriori telecamere pubbliche avevano immortalato la lavoratrice mentre passeggiava davanti al palazzo comunale durante il periodo in cui risultava malata. Le immagini erano state raccolte fuori dagli orari di reperibilità previsti dalla legge, ma erano comunque finite nel fascicolo disciplinare.
Il video informale inviato al sindaco
A complicare ulteriormente la vicenda, un dipendente comunale aveva ripreso la collega con il proprio smartphone mentre pranzava al ristorante con due altre dipendenti assenti per malattia. Il filmato era poi stato inviato via WhatsApp direttamente al cellulare personale della sindaca, Martina Rocchio. Secondo quanto riportato negli atti, il Comune non dispone di risorse sufficienti per dotare il primo cittadino di un telefono di servizio, motivo per cui le immagini erano finite su un dispositivo privato.
La decisione del Garante: prove inutilizzabili
Nonostante il materiale raccolto sembrasse lasciare pochi dubbi sul comportamento della lavoratrice — un caso perfetto da manuale dei cosiddetti “furbetti del cartellino” — il Garante ha dato ragione alla ex dipendente. L’Autorità ha stabilito che le modalità di acquisizione, gestione e conservazione delle immagini e dei dati sono avvenute in violazione della normativa sulla privacy, rendendo così illegittimo l’intero procedimento.