La rivalutazione delle pensioni prevista dal 1° gennaio 2026 si attesta all’1,4%. Un valore considerato troppo basso per compensare l’aumento del costo della vita degli ultimi anni. È quanto emerge dall’analisi tecnica elaborata dagli uffici Previdenza della Cgil nazionale e dello Spi Cgil, che hanno esaminato gli effetti del decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 28 novembre 2025. Il documento evidenzia come la perequazione fissata all’1,4% non riesca a recuperare la perdita di potere d’acquisto generata dall’impennata inflattiva del biennio 2022-2023, con incrementi che risultano quasi interamente assorbiti da Irpef e addizionali locali.

Incrementi molto bassi, gli esempi della Cgil

Secondo la simulazione prodotta dagli uffici previdenziali, gli aumenti effettivi saranno minimi. La pensione minima passerà da 616,67 a 619,79 euro, con un incremento pari a 3,12 euro al mese. Una pensione di 632 euro netti nel 2025 raggiungerà 641 euro nel 2026, quindi solo 9 euro in più. Lo stesso aumento riguarda chi percepisce 800 euro netti, che passeranno da 841 a 850 euro. Per un assegno netto di 1.000 euro, l’incremento sarà di 11 euro mensili.

Per una pensione da 1.500 euro lordi, dopo le trattenute fiscali l’aumento reale sarà di circa 17 euro. Si tratta, come osserva la Cgil, di incrementi che “non permettono di recuperare la perdita accumulata e finiscono per impoverire ulteriormente chi vive già con redditi insufficienti”.

Un problema strutturale: perequazione, fiscalità e maggiorazioni non coordinate

L’analisi sindacale richiama anche un tema più ampio: la mancanza di un coordinamento efficace tra rivalutazione delle pensioni, prelievo fiscale e maggiorazioni sociali. Secondo il documento, trattamenti come le pensioni minime integrate o le prestazioni assistenziali, esentate dall’Irpef e nate come forme di tutela, possono generare importi netti molto vicini, e in alcuni casi superiori, a quelli delle pensioni contributive leggermente più alte costruite con anni di versamenti.

La causa risiede nella “no tax area” ancora ferma a 8.500 euro annui e nella mancata armonizzazione tra i vari istituti. Il risultato, evidenziano Cgil e Spi, è un sistema che può produrre disuguaglianze non volute, generando sfiducia e un senso di ingiustizia sociale.

Le richieste del sindacato: quattordicesima più ampia e revisione della no tax area

Di fronte a questa situazione, i sindacati chiedono interventi non episodici ma strutturali. Tra le misure indicate come prioritarie ci sono:

  • l’allargamento e il rafforzamento della quattordicesima mensilità, considerata uno strumento essenziale per integrare il reddito dei pensionati con importi bassi;
  • l’ampliamento della no tax area per evitare che la rivalutazione venga interamente assorbita dal prelievo fiscale.

Secondo quanto dichiarato da Lara Ghiglione (Cgil) e Lorenzo Mazzoli (Spi), senza un adeguamento di questi strumenti “i pensionati con redditi più bassi continueranno a scivolare verso la povertà”, mentre gli aumenti nominali resteranno puramente formali.

Il nodo della riforma previdenziale e le prospettive future

La Cgil sottolinea inoltre che le misure introdotte negli ultimi anni non hanno modificato in modo sostanziale il quadro generale. La narrazione politica sul superamento della legge Monti-Fornero e sulla flessibilità in uscita non trova riscontro nella realtà: dal 2027 l’età pensionabile aumenterà ulteriormente e gli assegni futuri rischiano di essere più bassi per effetto delle regole contributive.

I dirigenti sindacali parlano di “arretramento dei diritti” e denunciano l’assenza di una riforma organica che metta al centro lavoro, contribuzione e valore sociale delle pensioni. Il sindacato annuncia anche nuove mobilitazioni: il 12 dicembre è previsto uno sciopero nazionale per riportare il tema al centro del dibattito pubblico.