Si infittisce la questione caporalato nel lusso. In principio erano Alviero Martini Spa, Giorgio Armani Operations e Manufactures Dior Srl, poi Loro Piana e, ultimo agli onori della cronaca, Tod’s (la cui matassa è ancora da sbrogliare), ma ora sarebbero altre tredici le aziende di moda e lusso sospettate di sfruttamento del lavoro.

Dolce&Gabbana, Versace, Prada, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, ma anche Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas e ancora Alexander McQueen Italia, Off-White Operating. Sono questi i player coinvolti nelle inchieste portate avanti dalla Procura di Milano, che sta scandagliando tutta la filiera del cosiddetto ‘bello e ben fatto’ guidata dal pm Paolo Storari, già sotto i riflettori per via del caso Tod’s.

Le case di moda entrate nel mirino compaiono nei fascicoli sugli opifici cinesi clandestini in quanto committenti che affiderebbero la produzione ad appaltatori e subappaltatori violando le norme sul lavoro e la sicurezza.

Nella serata di ieri Storari, affiancato dai carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro, ha notificato ordini di consegna documenti ai tredici marchi indagati; alla consegna della documentazione seguiranno gli accertamenti necessari nel corso dell’indagine. Per il momento, per i tutti i player coinvolti la Procura ha evidenziato sospetti casi di caporalato da chiarire e che riguarderebbero, più nello specifico, episodi di impiego di lavoratori cinesi sfruttati in laboratori o opifici-dormitorio, dove vengono sistematicamente violate le regole su igiene, sicurezza, retribuzioni, buste paga e orari.

In ciascun atto indica già – si legge su Il Sole 24 Ore – i fornitori critici individuati nella filiera del singolo brand, quanti lavoratori sono stati trovati in condizioni di sfruttamento e stato di bisogno e gli articoli del marchio sequestrati negli opifici, stoccati e pronti a tornare alla casa madre per essere immessi sul mercato. Agli stessi marchi viene chiesto, per il momento su base volontaria, di consegnare i propri modelli organizzativi di prevenzione e gli audit interni o commissionati ad advisor e consulenti, misure che teoricamente dovrebbero scongiurare irregolarità.

Si tratta di un approccio più morbido che concede alle aziende il tempo di eliminare eventuali anomalie dalla propria supply chain e ripensare il proprio parterre di appalti e subappalti, evitando così il rischio di finire in amministrazione giudiziaria.

Un modus operandi che, osserva la testata, arriva proprio in seguito alla vicenda relativa a Tod’s, nell’ambito della quale l’azienda e il patron Diego Della Valle si sono detti disponibili a collaborare con le autorità. La linea attuale della Procura sarebbe, quindi, attualmente quella di mostrare il ‘pugno di ferro’ con misure di commissariamento e interdittive qualora i marchi non fossero disposti a modificare l’assetto dei propri appalti, e il ‘guanto di velluto’ quando si mostrino collaborativi.

Un approccio orientato alla prevenzione, dunque, che risale già al tempo dei primi casi di caporalato, società non direttamente indagata ma rea di avere colposamente e inconsapevolmente agevolato le pratiche di sfruttamento. Decisamente più grave il quadro di Tod’s, accusato di dolo e di avere, quindi, agito nella piena consapevolezza delle condizioni dei propri subfornitori.

Ad ogni modo, che i casi progressivamente venuti a galla non fossero isolati è stato subito chiaro già quando, nell’ambito del commissariamento dell’Alviero Martini Spa, era emerso il ruolo del fornitore incriminato Crocolux come appaltatore anche di numerosi altri marchi del lusso. E nelle più recenti ispezioni, svolte lo scorso novembre, negli opifici toscani al servizio della produzione di Tod’s sono stati stati sequestrati articoli a firma di altre maison, a testimoniare l’esistenza di un distorto sistema di ‘vasi comunicanti’.

Al centro della dinamica resta la compressione estrema dei costi e, ancor prima, dei diritti dei lavoratori, che producono merce a prodotta a poche decine di euro e rivenduta sul mercato con ricarichi che arrivano al 10mila% in più.

Finora, però, non si era ancora arrivati a risalire lungo la supply chain fino al bandolo della matassa, ovvero alla committenza originaria del prodotto finito. Un cambio di rotta che il pm Storari ha definito “una scelta di politica giudiziaria”, volta a riportare al centro della filiera la responsabilità delle aziende.

Intanto, è stato approvato in Senato ed è passato alla Camera il ddl Pmi, che include anche un pacchetto di norme tese a garantire la trasparenza della filiera.