Il decreto armi all’Ucraina verrà ripresentato entro la fine dell’anno. Nel frattempo il papa ha chiesto all’Italia di mediare: è la vocazione del Paese
Poche parole consegnate ai cronisti sul volo che li stava riportando a Roma. “Penso che il ruolo dell’Italia potrebbe essere molto importante” nel favorire una tregua in Ucraina. È papa Leone XIV ad appellarsi a Giorgia Meloni. Un ruolo importante, ha proseguito il Pontefice, “precisamente (…) per la capacità che ha l’Italia di essere intermediaria in mezzo a un conflitto che esiste tra diverse parti. Cerchiamo insieme una soluzione che veramente potrebbe offrire pace, una giusta pace”.
La risposta – indiretta – della premier è giunta ieri: l’Italia resta schierata con l’esercito ucraino. L’invito del Papa è sovrastato dal fronte bellicista nel quale la Meloni è inserita: uno schieramento che parte da alcune caselle chiave del governo (il ministro della Difesa Crosetto con il sottosegretario Fazzolari) e arriva fino a Bruxelles. Nonostante sia ben consapevole che gli italiani sono in maggioranza contrari alla guerra, e che anche un alleato come la Lega (Salvini difende la trattativa fin dal 23 febbraio 2022) sia ostile a proseguire sulla via del riarmo, la Meloni resta inchiodata alla linea UE.
È una curiosa coincidenza che papa Leone abbia richiamato l’Italia alle sue responsabilità proprio nel giorno (martedì 2) in cui la Lega ha fatto saltare il decreto che rifinanziava l’acquisto di altre armi per Kiev. Non è il primo caso di “sinergia” involontaria tra il Vaticano e Salvini: nel settembre scorso ci fu la stretta di mano tra il ministro e l’ambasciatore russo a Roma, nel “campo neutro” dell’ambasciata cinese (la Santa Sede ha sempre difeso il principio del dialogo con tutti, a 360 gradi).
La premier Giorgia Meloni con il vicepremier Matteo Salvini alla Camera (ANSA 2025, Fabio Cimaglia)
Tutto ciò dovrebbe indurre la Meloni a seguire meno il suo apparato e certi ministri, e a guardare di più il ruolo storico dell’Italia e la vocazione pontiera del Paese. In Vaticano (a differenza di quanto accade a Bruxelles) sono abituati a soppesare le parole e difficilmente un Papa le dice a caso. Di conseguenza quelle di Prevost non sono frasi di circostanza, ma sottintendono che i canali della Segreteria di Stato sono sempre aperti. È un invito a sfruttarli, e a dialogare realmente a tutto campo, non solo con von der Leyen e Trump.
Il momento sarebbe favorevole, per il governo italiano, perché Kiev e ora anche Bruxelles sono colpite da accuse di corruzione a esponenti molto in vista delle rispettive scene politiche. Le dimissioni di Andrij Yermak, capo di gabinetto di Zelensky, dopo quelle di due suoi ministri, ripropongono l’interrogativo se i soldi (degli italiani) stanziati per armare l’Ucraina non finiscano a un regime corrotto.
Il decreto fatto saltare dalla Lega verrà ripresentato, ma molto difficilmente aiuterà Kiev a difendersi; è molto più probabile che ne prolunghi l’agonia territoriale e sociale.
La presidente del Consiglio ha garantito che il decreto armi sarà approvato entro la fine dell’anno. E al generale Cavo Dragone, presidente del comitato militare NATO, che lunedì ha ventilato la possibilità di “attacchi preventivi” verso la Russia, è arrivato ieri dalla premier appena un buffetto, un invito a “misurare le parole” anche se, in realtà, secondo Meloni “è stato male interpretato”. Al contrario: “Se l’Europa vuole una guerra contro la Russia, noi siamo pronti”, è stata la risposta di Putin. L’establishment euro-atlantico ha ottenuto esattamente ciò che voleva.
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