Torna Loquor, la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: “Lo scampare e la longevità non sono un caso e nemmeno il risultato sorprendente di un calcolo della “teoria dei giochi”

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi
Columnist 

La mente degli dei eterni

non cambia all’improvviso

Non capisco l’ostinata presenza di Urbano Cairo alle partite del Toro, pare la buffa presenza di un oste incomprensibilmente seduto davanti ad una tavola bandita con cibo da lui voluto a cagione di procurare un modesto reddito, e non per assecondare il piacere del gustare. Il Toro per lui non è un tormento da onorare, un esistenzialismo da vivere per riprodurre un infinito di sentimenti calibrati nel tempo da gioie, dolori e sciagure, per lui il Toro è quella tartina insapore e incolore che manda giù nel box dell’Olimpico Grande Torino riservato al capo mentre l’osceno è in corso in campo. Vent’anni di presidenza e ancora non capire la bellezza di ciò che hai in mano, con l’incapacità di gestire le cose di calcio manco fossero ostiche e difficili come l’evangelica cruna dell’ago. Non riesce mai a dire o a fare la cosa giusta, lasciando sguarnita la sua “Gazzetta” di qualsiasi commento o di sentimento almeno lambente il commendevole il compleanno del club. Se non ti preoccupi nemmeno di una cartolina d’auguri i casi sono due: o sei un atarassico libero finalmente dalle passioni, oppure sei come il mio amico Rocco che ad ogni sollecitazione emotiva rispondeva “me ne fotto”. Se c’è una ricorrenza Granata, ieri erano 119 le candeline sulla torta di compleanno del club, i suoi tifosi passano tutta la giornata in ginocchio a proclamare amore e ad abbracciare il destino ringraziandolo per questo vecchietto sempre giovane, costantemente pronto con le sue rughe ad evocare sentimenti mai estinti. Siamo diventati così incapaci di fare del bene, dal non vedere niente oltre il tavolo scettico di un cambiavalute, credo sia questo ad aver ridotto a parte in commedia la presidenza Cairo.

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Una commedia continuamente mal scritta, dove si è persino incapaci di trovare un “ghostwriter” all’altezza di fare almeno delle correzioni di un qualche valore su un copione decisamente scadente. Urge che accada qualcosa, caspita il presidente del Toro la dovrebbe sentire nell’aria quest’urgenza, o nel respiro divenuto tuono e poi lamento flebile da tragedia greca dei ventimila accorsi per essere malmenati nei sentimenti dal Como, provvisto di ragazzi di buoni speranze a cui qualcuno deve aver spiegato bene perché si corre dietro ad un pallone. Cosa gli vuoi dire ad uno che sta trovando del romantico nella decadenza? Sauro Tomà è una stele del “Grande Torino” che oggi compie 100 anni, giunto al Filadelfia al cospetto degli “Invincibili” per essere la “riserva” di Virgilio Maroso, e anche per essere qui dopo cento anni a cercare di ricordare qualcosa. L’Eterno non lo ha risparmiato solo dal costone di Superga, ma lo ha reso longevo appollaiato su quel menisco malmesso causa della sua salvezza. Lo scampare e la longevità non sono un caso e nemmeno il risultato sorprendente di un calcolo della “teoria dei giochi”, più che altro sono un monito a richiamare alle responsabilità tutti noi. Marco Bonetto su “Tuttosport” ha fatto un quadro disarmante dell’ultima campagna acquisti(o si dovrebbe chiamare “campagna prestiti”?) condotta da duo Cairo/Vagnati, e nemmeno la penna abile e morbida del Bonetto uomo buono e perbene è riuscita ad attutire il peso della scudisciata della realtà dei fatti. La difesa e il portiere sono scommesse pericolosamente già perse, non possedute né da adeguata cifra tecnica e nemmeno dal quel po’ di furore agonistico che ci si dovrebbe aspettare da chi di talento ne ha poco. Il furore è quella coperta con cui il gelo si sente meno, capace di capitalizzare al meglio ogni refolo di calore acchiappato. Paolo Pulici, intervistato da “La Stampa”, si augura un Toro recuperato finalmente dalla disgrazia etico/morale del post fallimento 2005, una squadra che ritorni ad essere un’ode per un certo modo di vivere, magari un controcanto al cinismo e al manicheismo da bilancio del calcio attuale. Si avverte quanto ci creda poco, ma comunque continua a crederci, anche a costo di fare la parte del totem fuori dalla storia e rintronato dall’età. Resiste “Puliciclone”, ed è commovente il suo atto di generosità estrema verso i tifosi Granata, specie riguardo coloro che per ragioni anagrafiche della gloria e dei sentimenti veri espressi dal club ne hanno solo sentito parlare.

Però il Toro nella tribolazione continua comunque ogni volta a ricevere una carezza inaspettata, un accidente buono che si presenta alla sua porta e suona una melodia con gli accordi giusti. Giovanni Simeone è argentino, figlio di un popolo capace di rimanere con i sogni dell’infante anche nel vortice di terribili intemperie, abituato ad essere abbarbicato sulle crisi con la stessa allegria furiosa di un tango ballato per strada mentre il “corralito” ti sta portando via tutto, ma non il desiderio di vivere pienamente la vita. Il ragazzo di Buenos Aires pare essere nato alle pendici di Superga, ed è entrato subito in simbiosi con la storia del Toro manco fosse stato cullato da una nonnina con il c’era una volta degli Invincibili sulle labbra. Uno così a Torino ci dovrebbe invecchiare, perché ha capito e ci ha capiti. Giovanni Simeone è uno stato d’animo Granata che doveva incontrare prima o poi il Toro, è un rimbalzo felice di un destino avverso e sta accarezzando cuori provati da umiliazioni esistenziali subite a ripetizione. Ci vorrebbe il padre Diego sulla panca del Toro, uno che da quindici anni lotta contro strapotere “Blanco” senza mai avere reverenza del “miedo escenico” dell’aristocrazia madridista, portando all’apice il diritto alla ribellione che ogni persona deve avere tra le sue disponibilità. Ogni rivoluzione ha bisogno di un leader ad incarnarla, in modo da renderla epopea giusta pur nella sconfitta. Ma Diego Simeone questo Toro non se lo può permettere, e non per una semplice relativa questione di soldi e di latitanti ambizioni, che pure sono parte del problema, piuttosto per la povertà di intenti da cui da tanti anni è pervaso. Se non hai intenti vai avanti unicamente con la forza dell’inerzia, con i giorni del campionato tramutati in uno scadenzario ineluttabile senza nessuna sorpresa: sai di certo come il Natale arriverà, ma tutto mancherà della letizia del dono inatteso e sorprendente. E forse disperazione tangibile questa? “Eravamo così poveri-scrive il pugile Jack La Motta nella sua autobiografia-che a Natale il mio vecchio usciva di casa, sparava un colpo di pistola in aria, poi rientrava in casa e diceva: spiacente Babbo Natale si è suicidato”.

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Si vive di espedienti e di gabole semantiche quando si è poveri di qualsiasi cosa, ci arrampica sui muri per giustificare o abbellire la povertà, anche di dire in modo stentoreo arruffato che si è messa in piedi una delle squadre più forti di una gestione ventennale. Si ostenta una recita fino a quando, come “Noodles” e i suoi giovani amici specchiandosi nella vetrina di un negozio nel film “C’era Una Volta In America”, lo specchio del campo di gioco non restituisce l’osceno della povertà di denaro e di idee. Leggo l’intervista rilasciata da Gin Carlo Caselli su Tn, uno che ha combattuto tutta la vita il male e l’ingiustizia, e mi rinfranco. Sono parole di rammarico, di ricordi e di lotta, sono parole di uno che attraversato la storia moderna del Toro, sono parole d’amore di chi ha avuto il coraggio di non arretrare di fronte al male, pur nelle vicende complicate e a volte terribili dell’esistenza: “gli auguro però(a Baroni)-dice Caselli-, almeno una volta, di avere la pelle d’oca per il Toro. Insieme a noi”. Il magistrato, che ha reso un grande servizio al Paese e rende onore a noi di essere suoi fratelli e sorelle in tifo, ci invita a non desistere, perché il Toro è ancora in possesso della sua magia: “è messa a dura prova ma ce l’ha ancora, eccome”. L’idea del Toro è quella dell’Italia buona, quella capace di rialzarsi dai disastri di una classe dirigente mediocre o dai rovesci di un destino infausto, quella abile a vedere la luce anche quando tutto appare buio, quella che vuole essere moderna ma senza dimenticare il passato, quella capace di lottare per il futuro anche a costo di cadere più volte, quella felice perché anche nelle difficoltà siamo qualcosa e mai scarti. “non potete impedirci-scrive Dave Eggers-di guardare con commiserazione i tristi abitanti di questo mondo, tutti quelli che non hanno avuto in sorte il nostro fascino, che non sono stati messi alla prova dalle nostre tribolazioni, che sono privi delle nostre cicatrici e pertanto deboli”. Siamo il Toro, e un giorno torneremo perché siamo figli di una idea. E nemmeno uno sciagurato come Cairo può distruggere una idea; illusa è quell’umiliazione che ritiene di poterci piegare. Torneremo, siatene certi.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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