I risultati di uno studio approfondito su 121 specie di primati (anche l’homo sapiens ne fa parte). Non esiste una sola regola: a volte il leader è il maschio, a volte la femmina. Ma nel 70% dei casi può essere indifferentemente l’uno o l’altra
L’idea è che sia una questione di natura: il «maschio alfa» è quello che occupa il rango più alto della gerarchia, che ha la prelazione su cibo e femmine (considerate entrambe come «cose» a sua disposizione) e che guida il branco a lui sottoposto. A lungo anche i maschi umani si sono ispirati a questo modello, ritenendolo «naturale», il più efficace dal punto di vista evolutivo. È riapparso con prepotenza sulla scena ora che la forza sembra essere tornata il principio regolatore nei rapporti sociali e internazionali. «Il ritorno del maschio alfa: perché la mascolinità tossica sta guadagnando importanza» titolava di recente l’agenzia Afp, pensando ai personaggi della manosfera (i siti e social che riuniscono uomini misogini), come Andrew Tate e compagnia.
Ma il maschio alfa di naturale non ha niente, come dimostra uno studio su 121 specie di primati (l’ordine di mammiferi a cui appartiene anche l’homo sapiens) pubblicato sulla rivista scientifica Pnas, Proceedings of the National Academy of Sciences, e a cui il quotidiano francese Le Monde dedica ora un lungo approfondimento.
Il termine «maschio alfa» era stato popolarizzato negli anni 70 da un libro sui lupi dell’etologo David Mech. Che poi l’ha sconfessato, come abbiamo raccontato in questa Rassegna. Gli studi successivi hanno infatti dimostrato che il comportamento naturale dei lupi non è la competizione per il rango ma piuttosto la collaborazione.
Adesso lo studio su Pnas, su 253 popolazioni che rappresentano 121 specie di primati, mostra che anche non è vero che i maschi dominano sempre sulle femmine. «Le società in cui i maschi vincono quasi tutti gli scontri aggressivi contro le femmine sono in realtà rare» scrivono gli autori.
«Il dominio chiaro dei maschi sulle femmine, definito come la vittoria in oltre il 90% di questi scontri, è stato osservato solo nel 17% delle popolazioni» sintetizza l’agenzia Afp. Nel 13% delle popolazioni c’è invece un chiaro dominio femminile.
Tra babbuini e scimpanzé, per esempio, sono prevalentemente i maschi a dominare. Mentre tra i lemuri e i bonobo sono le femmine.
Nel 70% dei primati, la stragrande maggioranza, l’individuo dominante può essere indifferentemente un maschio o una femmina. Non c’è dunque nessuna prevalenza naturale del maschio.
«Quando il dominio maschile è particolarmente pronunciato, di solito si tratta di specie in cui i maschi hanno un chiaro vantaggio fisico, come corpi o denti più grandi. È anche più comune tra le specie terrestri, in cui le femmine sono meno capaci di correre e nascondersi rispetto ai loro parenti che vivono sugli alberi. Le femmine, invece, tendono a dominare le società quando esercitano il controllo sulla riproduzione» spiega l’agenzia Afp.
«Il dimorfismo sessuale (con maschi più pesanti e più forti), la terrestrialità e la poligamia sono associati a una forte dominanza maschile. Al contrario, la parità di corporatura e dentatura, la vita sugli alberi e la monogamia favoriscono il potere delle femmine» scrive Le Monde.
«Per molto tempo abbiamo avuto una visione completamente binaria di questo tema: pensavamo che una specie fosse dominata dai maschi o dalle femmine e che questo fosse un tratto fisso» ha detto all’Afp Elise Huchard, direttrice di ricerca del Cnrs a Montpellier e prima firmataria dello studio. «Recentemente, questa idea è stata messa in discussione da studi che dimostrano che la realtà è molto più complessa».
La dominanza maschile rimane per i gorilla, che sono stati tra i primati più studiati, e il cui modello è stato a torto considerato valido anche per le altre specie. «Sono le scimmie più terrestri, senza dubbio a causa delle loro dimensioni, al contrario delle specie più arboricole. Inoltre, sono poligami: si è parlato a lungo di «harem» per descrivere i rapporti tra il maschio e le sue femmine. Infine, presentano un dimorfismo sessuale senza pari: fino a 180 chili per il maschio dominante, il dorso argentato; circa 80 chili per le femmine» spiega a Le Monde Shelly Masi, primatologa al Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi e autrice del libro Queen Kong.
Ma neanche nei gorilla le femmine sono semplicemente sottomesse. «Se il maschio dominante del nuovo gruppo non è di loro gradimento, o se le altre femmine le rifiutano, ne cercano un altro. In altre parole, i maschi dorso argentato devono impegnarsi molto per essere scelti e altrettanto per conservare le loro femmine. Sono loro, in definitiva, che operano la selezione sessuale, uno degli elementi chiave del dominio» dice Masi. Le femmine hanno voce in capitolo anche negli spostamenti del branco. «Quando si tratta di partire, si instaura una conversazione collettiva. Le femmine esprimono sempre la loro opinione. A volte il dorso argentato dà la sua opinione, a volte no, e se viene raggiunto il quorum, lui segue. Anche quando il maschio prende posizione, non sempre ha la meglio. Spesso si vede una femmina in testa, altre accompagnate dai giovani che seguono, e il maschio che chiude la marcia. Non solo perché in questo modo può sorvegliare i suoi sudditi, come si credeva, ma perché sono le femmine a guidare» spiega Masi.
La ricercatrice ha documentato il caso di una femmina di gorilla, Indolia, che, alla morte del maschio dominante, ha assunto il suo ruolo, replicandone i comportamenti, pur non avendo la sua stazza. «Abbiamo sottovalutato il potenziale delle femmine nei primati in generale e nei gorilla in particolare. L’unico esempio di utilizzo di uno strumento nei gorilla occidentali è stato osservato in una femmina. Meno potenti, ricorrono senza dubbio a una maggiore ingegnosità. Soprattutto, Indolia è una gorilla particolare. Con la sua personalità, il suo carattere. Questo è essenziale, nei gorilla come in noi. Anche all’interno di questa specie, immaginare uno schema di dominanza immutabile è un errore. Il loro potenziale è molto più grande di quanto abbiamo potuto o voluto credere» dice Masi.
Altre specie, come i bonobo, hanno una dominanza prettamente femminile. Ma la cosa che ha stupito di più i ricercatori, spiega Le Monde, è che «l’uso della violenza varia in modo spettacolare all’interno della stessa specie». Succede anche con gli scimpanzé, specie considerata a predominanza maschile, dove sono stati documentati gruppi in cui l’interazione sociale è governata dalla violenza, gruppi in cui la violenza è più moderata e altri in cui l’interazione sociale è pacifica. Gli etologi non sanno spiegare le cause di queste differenze, ma sanno che ci sono. «Non esiste un modello unico di scimpanzé. Ciò che domina la specie è la sua flessibilità» dice la primatologa Sabrina Krief.
Questo è ancora più vero per quel primate particolare che è l’essere umano. «I primati sono flessibili e gli esseri umani sono i più flessibili tra i primati. Ci siamo adattati a tutti gli ambienti, ben prima che il patriarcato dominasse la nostra società. Le società di cacciatori-raccoglitori erano e rimangono molto più egualitarie delle nostre. Ciò che è costante è la volontà dei maschi di controllare l’accesso alle femmine. È vero tra le scimmie, è vero in Texas, dove sono cresciuta, o tra i talebani in Afghanistan. Ma il loro successo non ha nulla di naturale o inevitabile» dice a Le Monde la nota antropologa, primatologa e psicologa Sarah Blaffer Hrdy.
L’idea del maschio alfa, in altri termini, è una «proiezione»: «Abbiamo proiettato sui primati il nostro modo di vita patriarcale» dice Hrdy. Visto che a un certo punto della storia le società umane hanno visto una predominanza maschile basata sulla forza fisica prima e sul monopolio del potere dopo, abbiamo voluto vedere la stessa cosa nel mondo animale. Che invece è molto più vario di così. Non c’è nulla di «naturale» nella prevalenza di un genere sull’altro.