Se credessi nell’inconscio, gli attribuirei la coincidenza: nel giorno in cui esce il trailer di “Buen camino”, io mi metto a vedere “All her fault”. Le due cose più distanti che esistano, credevo. E invece. “Buen camino” è il film con Checco Zalone, il personaggio di Luca Medici che, da quando Corrado Guzzanti non ha più voglia di lavorare, è rimasto l’unico in Italia a far ridere. (Un altro giorno ci occupiamo dei comici che sostengono che Zalone non faccia ridere, magari usando quell’autocertificazione di analfabetismo che è la categoria del gusto).

Il trailer non è pazzeschissimo, ma io credo in Luca Medici e conto che il film faccia invece molto ridere. Gente che ne ha visto qualche minuto (li hanno proiettati alle Giornate professionali del cinema a Sorrento) dice che è Zalone, che è il codice per: fa moltissimo ridere. Quel che si capisce dal trailer è che c’è un padre – didascalicamente a forma di Gianluca Vacchi – che insegue la figlia con ambizioni di spiritualità e povertà. 

“All her fault” è la serie (su Sky e Now ce ne sono per ora quattro puntate, ne escono due nuove ogni domenica, come quando eravamo piccoli e la tv si guardava coi tempi della tv) in cui alla rossa di “Succession” rapiscono il figlio. Tutte le mie amiche si sono messe a guardarla con terrore, e quindi ho pensato di dover capire di che si trattasse (mica sono un comico minore che dice «figurati se vado a vedere Zalone»). Quindi, per quanto “Buen camino” sia comico e “All her fault” drammatica, sempre al feticismo dei figli stiamo. Perché un esibizionista in Ferrari pur di stare con la figlia dovrebbe sacrificarsi a stare negli ostelli da crisi mistica? (Mia battuta preferita del trailer quella in cui Checco si guarda intorno, e dice che sembra un film: “Schindler’s list” – oddio, gli daranno dell’antisemita?). 

C’è una cosa che accomuna tutti i gruppi di mamme cui sono iscritta su Facebook, tutti i discorsi che sento fare dalle donne mie coetanee, tutte le puntate di “All her fault” e forse persino “Buen camino”, anche se non l’ho ancora visto. Mai, nella storia dell’umanità, i genitori hanno passato così tanto tempo in compagnia dei figli. E, contemporaneamente, la stessa generazione di genitori che vive in simbiosi coi figli si nutre di senso di colpa e altre pose sociali perché non passa abbastanza tempo coi figli. 

“All her fault” già dal titolo punta sullo squilibrio di genere: se tutti e due lavorano, comunque lei può sacrificare gli impegni per fare la madre e lui no; se lei è a una riunione e lui deve addormentare il figlio, lui le romperà comunque i coglioni durante la riunione; se il padre non sa neanche come si chiami l’insegnante del figlio nessuno si stupirà, se la madre non ha tutti i numeri delle altre mamme nella memoria del telefono sarà una madre degenere. 

Mentre il tema dello squilibrio sessista appassiona molto tutti (tra i problemi inventati di questo secolo, il carico psicologico del lavoro di cura: significa che, se devo dirti di premere il pulsante d’avvio della lavatrice perché non ci arrivi da solo, mi verrà l’esaurimento), l’ovvio è invisibile agli occhi di chiunque abbia figli: non sarà che tutte ’ste attenzioni sono troppe? Non sarà che al ragazzino gli si può dire di addormentarsi da solo e non rompere i coglioni? 

La prima generazione dopo secoli in cui i figli stavano con le balie e i genitori cara grazia se li vedevano un quarto d’ora al giorno, la mia, è stata la prima generazione ad avere un rapporto normale coi genitori, fatto né di cinghiate né di attaccamento morboso, e anche l’ultima. Per tutelare la propria unicità, ha deciso che sarebbe stata la prima a trattare i figli come un impegno totalizzante, a non staccarsene mai, a fingere che fossero conversatori appassionanti ma anche creature fragilissime cui mai dire di finire ciò che hanno nel piatto o di andare in camera loro. 

Siamo, anche, la prima generazione i cui figli, porelli, non sanno cosa siano la solitudine, l’indipendenza, la noia. Non c’è un ragazzino che vada a scuola da solo, non c’è un ragazzino che passi mezz’ora da solo mai. Inspiegabile che poi siano tutti disadattati. Sembrano quel personaggio di “Provaci ancora, Sam” che diceva alla segretaria dove sarebbe stato reperibile ogni quarto d’ora nelle successive cinque ore: agende fittissime e mai un imprevisto, mai un vuoto, mai un deficit di accudimento. 

All’inizio di “All her fault”, quando non sono ancora sicuri che questo benedetto ragazzino sia stato rapito, la madre s’illumina: il tracker nello zaino! È stato disattivato, oddio, allora ci sono sicuramente di mezzo dei malintenzionati. Ho iniziato a mandare messaggi ridanciani a tutti i genitori che conosco, e tutti – tutti – mi hanno risposto: certo che ha il tracker. Intendevano i loro figli nella realtà, mica il bambino nella finzione. 

Non ricordo in che spettacolo Chris Rock diceva che i diciotto o quanti erano anni in cui era durato il suo matrimonio valevano di più dei sessanta o quanti erano gli anni di matrimonio dei suoi genitori. Perché, diceva, mio padre usciva all’alba per andare al lavoro e tornava la sera, se uno dei figli al mattino moriva lui lo scopriva quando tornava a casa, è morto il bambino, ma quando, eh dieci ore fa. Invece lui e sua moglie sono stati sposati nell’epoca dei cellulari, e non c’è bisogno vi dica con che frequenza in quest’epoca sentiamo le persone che fanno parte della nostra vita, quanto ci sembri inaccettabile stare un minuto senza sapere dove sia una persona che stiamo aspettando, e quante incognite ci siano nel rivedersi la sera: nessuna, perché durante il giorno ci siamo mandati milleduecento messaggi a tariffa fissa. 

La frase «Cos’hai fatto oggi?» è scomparsa dal lessico: cos’ho fatto te l’ho scritto man mano che lo facevo, spesso ti ho anche mandato le foto (io, la gente che per dirmi dov’è mi manda la foto, la blocco su Whatsapp, ma è un limite mio). 

Mi aspetto, quando finalmente vedrò “Buen camino”, che anche Zalone abbia trovato la figlia a Santiago de Compostela (o dove diamine la raggiunge) perché lei gli ha mandato una foto e lui l’ha messa in un programma che riconosce quell’angolo di mondo, o perché le ha messo un tracker nello zaino. E, diversamente da quel che accade in “All her fault”, nessuna criminale l’ha disattivato. Non vedo l’ora di arrivare alla fine di “All her fault” per vedere se almeno la morale è: smettetela di controllare i figli con l’ossessività con cui una volta controllavate i mariti, tanto ve li rapiscono lo stesso. 

L’unica delle mie amiche i cui figli non hanno i tracker nella cartella ha però attivato la geolocalizzazione nei loro telefoni. Ma non ne può usufruire sempre. «Solo quando non se ne accorgono e non la disattivano», dice, e io non so cosa sia più grave: il tracciamento costante, o i figli che si permettono di disattivare il tracciamento su telefoni pagati dai genitori.

Qualunque delle due ipotesi scegliamo come peggiore, il risultato è lo stesso: siamo la più disastrosa generazione di genitori di tutti i tempi. Lo siamo al punto che, invece di specchiarci in Zalone e ridere di noi, finiremo tutti a inseguire i figli negli ostelli di Buchenwald, col gps della Ferrari sintonizzato sul loro tracker. Oddio, ora mi danno dell’antisemita, e senza neanche gli incassi di Zalone.