di
Alessandra Arachi

L’Italia che diserta le urne, gravata dal debito pubblico, rivolge la propria fiducia agli autocrati internazionali e ai device. La spesa culturale delle famiglie si è ridotta negli ultimi venti anni di oltre il 30%

Lo sapevamo già, ma il Censis ce lo mette nero su bianco: gli italiani non sopportano più la politica così come è oggi. E il 30% sono convinti che le autocrazie siano più adatte allo spirito del tempo. Gli italiani hanno fiducia in Putin (12,8%), in Orban (12,4%) in Erdogan (11%), Trump (16,3%3 persino in Xi Jiping (13,9%). Ma poi c’è l’ombrello di Leone XIV che mette d’accordo il 66,7% della popolazione. Benvenuti nella 59esima fotografia del Censis che ci consegna  un’Italia «selvaggia che si arrabatta tra la difficoltà di arrivare a fine mese e l’insofferenza per la questione politica a tutto tondo». Perché non sono disillusi soltanto da quella italiana e puntano il dito contro quella che loro ritengono l’inefficienza dell’Unione Europea: per il 62% non ha un ruolo decisivo nelle partite globali, il 53% ritiene che sia destinata ad una ruolo marginale in un mondo dove prevale l’aggressività e la forza. 

Il consenso pro pal

La partecipazione al voto diventa sempre più scarsa, anno dopo anno: nel 2022 l’astensione ha raggiunto la cifra record del 36,%, ovvero 9 punti percentuali in meno rispetto alle precedenti elezioni europee. Uno sguardo al passato, il 1979 come parametro di riferimento quando l’astensione si fermava al 14,3%. Nel 2003 il 57,1% degli italiani si informava regolarmente di politica, nel 2024 la percentuale è scesa al 48,2%. I cittadini che ascoltano dibattiti politici erano allora il 21,1% e sono oggi il 10,8%. La partecipazione ai comizi si è dimezzata: dal 5,7% al 2,5% (dal 6,3% all’1,9% tra i giovani di 20-24 anni). E le mobilitazioni di piazza raccolgono sempre meno adesioni: nel 2003 il 6,8% degli italiani aveva partecipato a cortei, vent’anni dopo il 3,3%. Un’eccezione, dunque, le recenti proteste per il conflitto in Palestina.



















































Il grande debito

Il nostro debito  pubblico è arrivato a distaccare di parecchio le altre nazioni d’Europa: tra il 2001 e il 2024 è lievitato dal 108,5% al 134,9% in termini percentuali. In ogni caso non siamo l’unico malato i Europa, a vedere la media dei Paesi del G7, nello stesso periodo è lievitato dal 75,1% al %124%. A settembre il debito pubblico italiano  il debito pubblico italiano ha raggiunto la cifra record di 3081 miliardi di euro (più 38,2 rispetto a settembre 2001), ovvero il valore del Pil, è il valore più alto tra tutti i Paesi europei, ad Eccezione di Ungheria e Grecia. 

La carica dei cinquantenni nel mercato del lavoro

C’è un dato che fa suonare un grande campanello d’allarme per la crescita produttiva del nostro paese: vengono assunti sempre più over 50 rispetto ai  giovani. Per capire: nel biennio 2023-2024 c’è stato un incremento di occupati di 833mila persone, di questi 704 mila hanno, appunto, più di cinquant’anni (l’84,5%). 

Il saldo positivo nei primi dieci mesi del 2025 (206.000 occupati in più r rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso) dipende esclusivamente dai più anziani, che aumentano di 410.000 unità (+4,2%), a fronte di -96.000 occupati di 35-49 anni (-1,1%) e -109.000 con meno di 35 anni (-2,0%). Tra i giovani sono in netto aumento gli inattivi: +176.000 nei primi dieci mesi dell’anno (+3,0%). Nel biennio 2023-2024 l’input di lavoro supera largamente la crescita dell’economia: +3,7% gli occupati, +5,3% le ore lavorate, solo +1,7% il Pil.

Il desiderio di stabilità

Checco Zalone ha intercettato in anticipo con i suoi film la mania degli italiani per il posto fisso. Il 46,4% sogna un impiego nel settore pubblico, a differenza del 30,6% che opterebbe per il privato. Solo l’11% sceglierebbe la libera professione o l’imprenditoria. 

La stabilità è il motivo dominante: il 63% degli occupati nel settore pubblico la indica come la prima ragione, seguita dalla certezza del reddito fisso (55,1%) e dalla possibilità di evitare il rischio di licenziamento (35,2%). Gli italiani cercano soprattutto impieghi duraturi, capaci di garantire continuità nel tempo. Infatti, la permanenza media nello stesso lavoro è di 11,7 anni, a fronte di una media dell’Unione europea di 9,9 anni.

Solo un dipendente su tre si sente molto motivato

Solo il 38% dei lavoratori italiani ritiene il proprio ambiente professionale psicologicamente ed emotivamente salubre: un valore ben al di sotto di quello registrato nei Paesi nordeuropei, che superano il 60%. Solo il 29,4% degli occupati dipendenti nel settore privato in Italia si sente molto motivato a dare il massimo nel proprio lavoro.

Tra i lavoratori che hanno più di 55 lo afferma più di uno su tre (il 37,5%), tra gli under 44 la quota scende a circa uno su quattro (il 24,0%). 

Anche la posizione occupata all’interno delle gerarchie aziendali fa la differenza: i dipendenti intermedi mostrano un tasso di motivazione elevato: il 32,2% contro il 26,1% di chi svolge mansioni esecutive. Quando l’engagement viene a mancare, sorge il disimpegno, conseguenza di diversi fattori: il disallineamento tra le competenze del lavoratore e le mansioni affidate, e la disillusione, con un distacco emotivo dalle attività lavorative svolte e la perdita di centralità del lavoro nella vita delle persone. 

La disaffezione al lavoro rappresenta una delle maggiori sfide per le imprese. Il 38,3% dei lavoratori percepisce un impatto forte e tangibile sulla produttività aziendale, un ulteriore 34,2% lo riconosce come un fattore influente. Conseguentemente, calano gli indicatori di produttività: -2,0% il valore aggiunto per occupato e -3,5% il valore aggiunto per ora lavorata. 

In compenso l’Italia è balzata alla quattordicesima posizione tra le economie mondiali per intensità di automazione, con una quantità di robot installati per numero di addetti superiore alla media europea, statunitense e asiatica, e risulta al sesto posto nel mondo per numero di robot industriali installati nel 2023, con più di 10 mila nuove installazioni.  

Le culle non si riempiono

È un ritornello di tutti gli studi statistici degli ultimi anni: nascono sempre  meno bambini, di conseguenza l’Italia continua ad invecchiare e pure rapidamente. Le persone dai 65 anni in su rappresentano il 24,7% della popolazione (14,6 milioni di persone): erano il 18,1% nel 2000 (10,3 milioni) e il 9,3% nel 1960 (4,6 milioni). L’aspettativa di vita è arrivata a 85,5 anni per le donne e 81,4 per gli uomini: circa 5 mesi in più solo nell’ultimo anno. E i centenari, 594 nel 1960, diventati 4.765 nel 2000, oggi sono 23mila548. Nel 2045 le persone dai 65 anni in su saranno aumentate di quasi 4,5 milioni e raggiungeranno i 19 milioni (il 34,1% della popolazione). Il desiderio di prolungare l’esistenza sfuggendo alle malattie è la regola che accomuna la nuova generazione di anziani. Una tendenza a vivere come eterni adulti, senza limitazioni legate all’avanzare dell’età. Con la consapevolezza di custodire e trasmettere in eredità risorse, non solo materiali, di cui le giovani generazioni non potranno godere in ugual misura.

Libri versus device

Negli ultimi vent’anni (2004-2024) la spesa per la cultura delle famiglie italiane si è drasticamente ridotta (-34,6%). Si tratta di poco più di 12 miliardi di euro nell’ultimo anno, ovvero poco più di un terzo di quanto spendiamo nell’insieme per smartphone e computer (quasi 14,5 miliardi nel 2024: +723,3% negli ultimi vent’anni) e servizi di telefonia e traffico dati (17,5 miliardi). La riduzione dei consumi culturali dipende dalla forte contrazione della spesa per giornali (-48,3% in vent’anni) e libri (-24,6%). 

Ma contemporaneamente gli altri consumi di beni (+14,2%) e servizi culturali (+28,9%) non sono affatto diminuiti. Nell’ultimo anno il 45,5% degli italiani è andato al cinema, il 24,7% ha assistito a eventi musicali, il 22,0% a spettacoli teatrali, il 10,8% a concerti di musica classica e all’opera. Musei e mostre sono stati visitati dal 33,6% degli italiani, siti archeologici e monumenti dal 30,9%. L’offerta culturale diventa sempre più un dispositivo esperienziale.

La Capitale ha il record dei reati

Roma ha il record in Italia per numero di reati commessi (271,8 mila nel 2024), seguita da Milano (226 mila reati). Nel primo semestre del 2025, però, i reati commessi a Roma si sono ridotti del 7,0% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e a Milano dello 0,9% si legge ancora nel rapporto.

A gonfiare il dato relativo ai furti a Roma sono i borseggi: nel 2024 nella capitale ne sono stati denunciati 33.468, il 23,8% del totale nazionale, compiuti a un ritmo di 92 al giorno. Segnali positivi vengono anche in questo caso dai primi sei mesi del 2025, quando i borseggi a Roma si sono ridotti del 13,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sia a Roma che a Milano aumentano le rapine in pubblica via. A Milano nel 2024 sono state 2.624, in crescita del 32,1% rispetto all’anno pre-pandemia. Nello stesso anno a Roma ne sono state commesse 2.016, il 51,5% in più di quelle commesse nel 2019. Anche questi reati nei primi sei mesi del 2025 si riducono: del 18,4% a Milano e del 24,5% a Roma, rispetto a una contrazione media nazionale dell’8,4%. 

Preoccupante è il dato sulle violenze sessuali, che a Milano nel 2024 sono state 691 (circa il 10% del totale nazionale), con un incremento del 67,3% rispetto al 2019, e a Roma 510, in crescita del 22,3%. Anche le violenze sessuali nel 2025 sono in diminuzione: nel primo semestre fanno registrare un calo del 20,8% a Milano e del 16,2% a Roma (-11,7% in Italia)». 


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5 dicembre 2025 ( modifica il 5 dicembre 2025 | 11:35)