Lo spettro di un disimpegno dell’America dalla difesa dei suoi alleati è come il leggendario mostro di Loch Ness, appare e scompare periodicamente: se ne parla dal 1945, a fasi alterne.
Di sicuro oggi siamo in una fase dov’è tornato possibile, verosimile, con Donald Trump. Tutti ne traggono le conseguenze a modo loro. Una delle reazioni, consiste nel riesumare la possibilità che altre nazioni si dotino dell’arma nucleare. Questa è anche una lezione dalla guerra in Ucraina: se Kiev non avesse ceduto le sue testate atomiche alla Russia negli anni Novanta, se avesse mantenuto quel tipo di deterrente, Putin non avrebbe osato attaccare.
Il dibattito sul nucleare è particolarmente avanzato dall’altra parte del mondo, in uno dei paesi che sono esposti a minacce molto serie, e si interrogano sulla tenuta dell’ombrello americano: la Corea del Sud. Gli europei farebbero bene a seguire quel che sta accadendo a Seul.
La Corea del Sud è uno dei paesi più dinamici e prosperi dell’Asia orientale, simbolo del successo capitalistico asiatico, patria di Samsung e Hyundai, democrazia consolidata e alleato fedele degli Stati Uniti. Oggi vive un dibattito che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile: dotarsi o no di un’arma nucleare nazionale. La domanda non è più tabù. È diventata oggetto di sondaggi, editoriali, discussioni parlamentari. Nella società sudcoreana è maturata una convinzione diffusa: il mondo è cambiato, gli equilibri strategici della regione anche. E se Washington un giorno dovesse ridurre l’impegno militare nel Pacifico, chi garantirebbe la sicurezza di Seul?
Il detonatore è la minaccia nordcoreana. Pyongyang è una potenza atomica di fatto. Nel 2022 Kim Jong Un ha modificato la dottrina nucleare, sancendo la possibilità di un primo colpo contro il Sud. Le prove missilistiche si susseguono. L’arsenale cresce. I rapporti strategici internazionali registrano scambi tecnologici sempre più intensi tra la Corea del Nord e la Russia, con la Cina sullo sfondo come garante e protettore. Mentre Kim minaccia apertamente la «scomparsa di Seul», i sudcoreani guardano oltre la linea del 38° parallelo e realizzano che la deterrenza basata esclusivamente sulla presenza americana non sembra più una certezza eterna.
Il rapporto Seul-Washington resta fortissimo, tanto militare quanto simbolico. Le truppe americane sono ancora sul territorio sudcoreano, retaggio della guerra del 1950–53. Ma è cresciuta l’ansia. È un sentimento alimentato dall’altalena della politica statunitense: una Casa Bianca oscillante tra internazionalisti e isolazionisti, tra chi considera l’Asia il teatro principale della competizione con la Cina e chi vorrebbe riportare i soldati a casa.
Un interrogativo circola nei think tank di Seul: gli Stati Uniti rischierebbero davvero San Francisco per difendere Seul?
Questa domanda, che appartiene a ogni alleanza nucleare asimmetrica, è entrata nel discorso pubblico. Se ne discute nei talk-show, coinvolge i giovani americanizzati, quelli che studiano all’estero e lavorano nelle start-up tecnologiche. L’incertezza dell’ombrello atomico statunitense è una sensazione, non necessariamente un fatto. Ma in geopolitica le sensazioni contano quanto i fatti.
Un sondaggio Gallup Korea e Chey Institute indica che oltre il 70% dell’opinione pubblica sostiene l’idea di una capacità nucleare nazionale. Altre rilevazioni del CSIS e dell’Asan Institute confermano percentuali stabili o in crescita, con punte che superano il 75%. È un dato sorprendente se confrontato con i sentimenti pacifisti che animano da decenni gran parte della sinistra sudcoreana.
Il mondo politico riflette questa ambiguità. L’ex presidente Yoon Suk-yeol fu il primo leader a suggerire che la Corea del Sud potesse un giorno dotarsi di un deterrente atomico autonomo o, almeno, chiedere la ridislocazione di armi nucleari tattiche statunitensi sul territorio. Fu una rottura con l’ortodossia diplomatica del passato. Poi la prudenza prevalse: Washington fece capire che una proliferazione nucleare nel Pacifico non è nell’interesse americano. Stati Uniti e Corea del Sud firmarono la Washington Declaration del 2023, crearono un gruppo permanente di consultazione nucleare: un tentativo di rafforzare la «extended deterrence», il vecchio ombrello nucleare, aggiornandolo alla nuova realtà strategica.
Ma nella destra sudcoreana la tentazione resta viva. Non è raro che parlamentari conservatori chiedano uno studio serio sull’opzione atomica. Il sindaco di Seul ha suggerito più volte che il paese dovrebbe almeno sviluppare la capacità tecnica, così come l’India negli anni Ottanta coltivò la sua autonomia nucleare latente fino ai test del 1998. L’idea che il Sud potrebbe dotarsi rapidamente di una testata, grazie a un’industria nucleare civile avanzata e a ottime capacità missilistiche, circola in molti ambienti accademici. Gli esperti la considerano una possibilità concreta: la Corea del Sud potrebbe passare dallo stadio civile a quello militare in tempi relativamente brevi, se rompesse con il Trattato di non proliferazione. Una scelta rivoluzionaria, certo. Ma in questi anni di revisionismo geopolitico non si può dare nulla per scontato.
Il campo progressista è più cauto. Il nuovo presidente Lee Jae Myung non parla di bomba sudcoreana. Preferisce una posizione di «realismo pragmatico»: riconoscere che la denuclearizzazione totale del Nord non è più un obiettivo realistico, e lavorare invece su un congelamento o un contenimento. Puntare sulla deterrenza convenzionale, non su quella nucleare. Rafforzare la flotta, potenziare i sottomarini, migliorare le difese antimissile. Ma anche a sinistra gli umori sono cambiati. L’ottimismo negoziale degli anni Duemila è evaporato. La generazione del «Sunshine Policy», quella che sperava in una riunificazione morbida attraverso il commercio e la cooperazione, è stata travolta dalla realtà di un Nord sempre più armato. Uno choc brutale si è avuto con la partecipazione di truppe nordcoreane alla guerra in Ucraina. Oggi anche in ambienti progressisti si parla di autonomia strategica, se non altro per non dipendere interamente da Washington.
Il paradosso del dibattito è che la bomba è insieme desiderata e temuta. I suoi sostenitori sostengono che una Corea del Sud nucleare riequilibrerebbe la regione, convincerebbe la Cina a frenare il suo protetto nordcoreano e costringerebbe Pyongyang alla prudenza. Gli oppositori temono un effetto domino: il Giappone potrebbe seguire l’esempio, e forse Taiwan. Si aprirebbe la stagione delle mini-potenze atomiche asiatiche, ciascuna con un arsenale crescente a poche centinaia di chilometri dalle altre. Il rischio di un incidente sarebbe più alto. La regione più dinamica dell’economia mondiale diventerebbe anche la più instabile.
A questo si aggiunge la dimensione economica. La Corea del Sud è una potenza esportatrice. La Cina potrebbe reagire con ritorsioni commerciali, come già accadde nel 2016 quando Seul accettò il dispiegamento del sistema antimissile americano THAAD: Pechino rispose boicottando marchi coreani, limitando il turismo, penalizzando i gruppi retail. Quelle ferite non sono state dimenticate dal mondo business sudcoreano, potente e influente.
Non bisogna però ridurre il dibattito a un calcolo razionale. C’è una componente emotiva, identitaria. La Corea del Sud è una democrazia moderna circondata da tre potenze nucleari: Corea del Nord, Cina, Russia. In una fase di multipolarismo competitivo, la sensazione di vulnerabilità è esistenziale. Molti sudcoreani vivono la propria sicurezza come ostaggio della politica americana: un presidente può rafforzare l’alleanza, il successore può ridimensionarla. In una democrazia matura, questa dipendenza è vissuta con un misto di gratitudine e inquietudine.
L’Europa dovrebbe osservare questo fenomeno con attenzione. In Asia, la proliferazione nucleare non è un’ipotesi teorica ma un dibattito aperto, ancorché discreto. In un futuro non lontano potremmo trovarci in un mondo dove non solo le superpotenze ma anche grandi democrazie industriali considerano la bomba come un’assicurazione sulla vita nazionale. È un salto di epoca. La Corea del Sud è un laboratorio geopolitico. Non sappiamo come si concluderà questa discussione; probabilmente non con un test atomico imminente, ma neppure con una pacificazione definitiva. Il più probabile oggi è un percorso intermedio: rafforzare la deterrenza convenzionale, consolidare la consultazione nucleare con gli Stati Uniti, sviluppare una «capacità potenziale» senza violare formalmente il Trattato di non proliferazione.
E in Europa? Il paese che più «somiglia» alla Corea del Sud è la Germania. Ogni tanto si vede offrire – tra mille cautele, ambiguità, ripensamenti – di essere protetta dalla «force de frappe», l’atomica francese. Ma anche a prescindere dalla modesta potenza dell’arsenale nucleare transalpino, un cancelliere tedesco può fidarsi di Parigi? Con una Quinta Repubblica in decomposizione? E la possibilità concreta che il prossimo governo sia in mano a una destra francese filorussa, o apertamente putiniana? Il dibattito a Berlino non è ancora esplicito come a Seul. Ma forse qualcuno lo aprirà.
5 dicembre 2025, 16:11 – modifica il 5 dicembre 2025 | 16:11
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