di
Andrea Pasqualetto

Elena Paradiso, dirigente dell’Ufficio distrettuale esecuzione penale esterna: «I centri seguono al massimo trenta persone all’anno»

«Il signor Muslija era stato convocato lunedì scorso nei nostri uffici per discutere del programma per uomini maltrattanti che il tribunale gli aveva imposto ma non era ancora iniziato, nonostante la sentenza fosse di luglio. Lui si è presentato puntualmente. Ha avuto anche un colloquio con gli psicologi che l’hanno trovato bene, adeguato. Il corso sarebbe iniziato in primavera».

Da una parte loro, gli operatori e gli psicologi dell’Ufficio distrettuale esecuzione penale esterna (Udepe) di Ancona, articolazione territoriale del ministero della Giustizia; dall’altra lui, Natif Muslija, l’operaio cinquantenne di origini macedoni che il giorno dopo quell’appuntamento ha picchiato a morte la moglie Sadjide, sua connazionale, nella loro casa di Monte Rotondo (Ancona). Muslija ha poi tentato di impiccarsi in un bosco vicino a Matelica ed è stato miracolosamente salvato dall’intervento di un cacciatore che l’ha visto appeso a un albero. Dopo essere stato velocemente rianimato in ospedale, Muslija è stato dimesso e trasferito nel carcere di Ancona. Del caso specifico e delle criticità generali della situazione, parla proprio la direttrice dell’Udepe, Elena Paradiso.



















































Dottoressa, in luglio Muslija aveva patteggiato un anno e dieci mesi per i maltrattamenti alla moglie, pena sospesa dal Tribunale di Ancona a condizione facesse il percorso di annuale di cura previsto dalla legge. Come mai non era ancora iniziato?

«Premessa: noi abbiamo il compito di seguire e controllare questi programmi che vengono organizzati e portati avanti dai Cuav, i Centri per uomini violenti che esistono da due anni e sono finanziati dalla legge del Codice rosso e con fondi regionali. Non era iniziato per un semplice motivo: non c’era posto. Il fatto che non avesse iniziato è il grosso problema di questo sistema. Perché non è l’unico caso, purtroppo».

«Ci saranno altre cento persone in libertà con pena sospesa, solo del nostro distretto: questa è la realtà. Tutta gente libera, impunita, le lascio immaginare. Il fatto è che i nostri Cuav possono seguire al massimo 30 persone all’anno. Ma i tribunali ce ne mandano tantissimi, tutti soggetti sospesi e rinviati a questi centri, che sono sommersi di richieste».

Quante sono le situazioni a rischio?

«Sono tutti casi critici e io sono molto preoccupata per quello che può succedere alle donne perché molte situazioni possono esplodere da un momento all’altro».

«Ci vorrebbe un intervento finanziario importante per prevedere un maggior numero di corsi o di strutture. E bisognerebbe fare un discorso diverso con tribunali e Procure, in modo che i giudici non sospendessero le pene e le lasciassero in esecuzione, almeno per tamponare. Ci vorrebbe poi un sistema più efficace di controllo di queste persone. Alcune di loro, su consiglio dei legali, si sono rivolte privatamente agli psicologi».

Come nel caso di Muslija.

«Sì, aveva fatto qualche colloquio. Ma ci vorrebbero anche più servizi sul territorio in favore delle vittime, le donne. La moglie di Natif l’aveva riaccolto in casa, ma lei non era contattabile perché nessuno di noi era autorizzato a raggiungerla. Era sul filo e il filo si è spezzato».

5 dicembre 2025 ( modifica il 5 dicembre 2025 | 22:49)