Ci vorrebbe la penna di Gogol, maestro russo del grottesco, per descrivere la scena di Putin che versa petali di rosa sul monumento che commemora Gandhi, eleggendo l’apostolo della non violenza a suo modello politico. Escludo che recitasse, o che possa avere colto l’aspetto surreale della faccenda: paragonarsi lui, il «macho» domatore di tigri, all’uomo che incarnava la quintessenza della mitezza. 

Chi esercita il potere in modo assoluto, circondato dal tremebondo ossequio dei sottoposti, finisce per credere davvero a quello che dice. Tanto più che di ogni biografia si può saccheggiare la parte che più ci fa comodo. Gandhi, per ovvie ragioni storiche, non era esattamente un fan dell’imperialismo anglosassone. Ma era contrario anche a quello degli altri, e oggi sarebbe difficile immaginarlo accanto a Putin in Ucraina, in Africa e in tutti gli scenari dove l’autocrate russo persegue obiettivi di dominio, pardon, di «pacifica cooperazione tra le nazioni», come ha scritto sul libro riservato ai messaggi dei visitatori. 



















































Immaginate se oggi qualcuno in Russia dicesse, a proposito della guerra: «Occhio per occhio, alla fine si diventa tutti ciechi», a proposito dei rapporti con Trump: «L’uomo si distrugge facendo affari senza morale» e a proposito di Putin stesso: «L’unico tiranno che accetto è la voce silenziosa dentro di me». 

Ascoltando queste parole di Gandhi, Putin lo inviterebbe di sicuro al Cremlino per complimentarsi e sullo slancio gli offrirebbe una squisita tazza di tè.

Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. Chi non è ancora abbonato può trovare qui le modalità per farlo e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale.

6 dicembre 2025