di
Giuliana Ferraino

Effetto dazi Usa, Pechino sposta l’export in Europa. Le stime del Mef per il 2025. La Cina ha smesso di vendere il pezzo singolo, ora propone il prodotto finito

L’invasione delle merci cinesi non è più uno slogan politico, ma un dato economico. Nel 2024 la Cina ha registrato un surplus commerciale verso l’Italia superiore a 34 miliardi, quasi il doppio rispetto al 2019, con esportazioni triplicate rispetto alle importazioni. Nei primi 10 mesi di quest’anno il disavanzo con Pechino è salito a 40,6 miliardi, segnala l’Istat: a questo ritmo il saldo potrebbe arrivare a 45 miliardi a fine anno, si stima. 

Il cuore dello squilibrio non è quello che l’Italia vende a Pechino, tradizionalmente limitato, ma ciò che compra: nel 2024, oltre 8 miliardi nel settore chimico, 7,5 miliardi tra computer, elettronica e ottica, circa 6 miliardi ciascuno in apparecchi elettrici e macchinari, comparto quest’ultimo dove, pur esportando più di 3,5 miliardi, Roma resta in deficit.



















































 La dipendenza italiana è particolarmente elevata nel mobilio (26,9%), nel tessile (24,1%) e negli apparecchi elettrici (21,7%). L’effetto combinato è un aumento stabile della presenza cinese nei segmenti medio-bassi, ma anche un avanzamento nel segmento medio, dove le imprese europee faticano a competere sui prezzi.

La dinamica degli ultimi due anni, però, non si spiega solo con la competitività di prezzo. I dazi introdotti da Washington hanno deviato parte dei flussi: ciò che non entra negli Stati Uniti cerca nuovi sbocchi in Europa, dove la domanda interna debole e l’assenza di strumenti di difesa rapidi rendono il mercato particolarmente vulnerabile. Il fenomeno si vede in Italia, ma riguarda l’intera Unione.

A complicare il quadro c’è un cambiamento strutturale nel modello industriale cinese. Per anni molte imprese italiane hanno importato da Pechino microcomponenti essenziali a basso costo. Ora, in diversi settori, la Cina ha smesso di vendere solo il pezzo singolo e propone direttamente il prodotto finito, spesso a un prezzo che per i produttori europei è impossibile eguagliare. Quando la fornitura di quel componente viene interrotta o rincarata, le Pmi più fragili entrano in crisi: alcune sono state costrette a chiudere, altre a ridimensionarsi o a riprogettare intere linee produttive. La transizione verso prodotti completi made in China sta dunque erodendo spazi di mercato che in passato erano presidiati dall’industria italiana ed europea.

Un caso evidente riguarda le auto elettriche, arrivate in Europa con prezzi molto competitivi anche grazie a un quadro regolatorio che per anni ha agevolato l’import senza creare barriere adeguate, salvo la recente inversione di strategia, mentre allo stesso tempo l’Ue imponeva norme stringenti ai costruttori europei. In parallelo, l’esplosione dell’e-commerce cinese e di piattaforme low cost come Temu e Shein ha moltiplicato l’arrivo di pacchi di valore inferiore ai 150 euro, finora esenti da dazi. Per frenare l’invasione, l’Europa ha deciso una nuova tassazione, ma entrerà in vigore solo dal 2028. Alcuni Stati stanno valutando misure ponte, ma la lentezza decisionale europea resta un nodo critico.

Alla spinta dell’export cinese si sommano fattori globali: eccesso di capacità produttiva, regionalizzazione dei flussi e domanda mondiale debole. Il risultato è una pressione crescente sulle filiere europee, che si trovano a fronteggiare una concorrenza strutturale. La questione non è più soltanto commerciale: riguarda la tenuta industriale del continente. Ad esempio, nell’automotive.

 L’Europa sta iniziando a reagire, ma non basta. Servono interventi più rapidi e più coordinamento, per evitare risposte frammentate, proprio nel momento in cui cresce l’incertezza e aumenta la competizione globale.

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6 dicembre 2025