C’è qualcosa di strano nell’avvicinarsi oggi a un JRPG nato nei primi anni ’90. È come riportare alla luce un manufatto che continua a parlare nonostante i decenni, una testimonianza di un’epoca in cui il videogioco giapponese cercava un’identità distinta, costruendo mondi e regole narrative che avrebbero poi influenzato generazioni di sviluppatori.

Quando ho messo le mani su Romancing SaGa: Minstrel Song Remastered, la sensazione immediata è stata quella di un ritorno, di un salto indietro in un periodo che ho vissuto da ragazzino e che avverto ancora come parte integrante del mio immaginario. 

Un effetto curioso e al tempo stesso dolce, simile all’aprire una vecchia scatola di cartone e ritrovarvi dentro qualcosa che non sapevo di ricordare.

Dopo tutto, ciò che abbiamo davanti non è semplicemente una riproposizione moderna di un titolo antico. È la versione rimasterizzata di un remake, una sorta di palinsesto dove nuovi interventi si sovrappongono a idee vecchie di trent’anni senza cancellarle del tutto.

Il remaster di un remake

L’originale Romancing SaGa nacque su Super Famicom nel 1992 come quarto capitolo della serie, se si includono nel conteggio quei tre Final Fantasy Legend che, pur appartenendo formalmente al brand Final Fantasy, erano a tutti gli effetti parte dell’universo SaGa. Una tradizione complessa, sfuggente, fatta di sperimentazione, di libertà offerte al giocatore più che di percorsi guidati costruiti ad arte.

La Remastered vera e propria non è inedita: Square Enix l’ha riportata alla luce nel 2022 su Switch, PS4, PS5 e PC, tentando di alleggerire gli spigoli del gioco originale e del remake per PlayStation 2. Le migliorie introdotte riguardavano la qualità di vita, una rinfrescata generale all’interfaccia, la revisione di determinati boss e l’introduzione di nuove classi e personaggi reclutabili.

Tutto utile, senz’altro, ma non sufficiente a colmare quella distanza evidente che separa le opere moderne da quelle più anziane, quando persino il modo di costruire i combattimenti seguiva logiche oggi quasi del tutto dimenticate.

Il vero motivo per cui questa recensione arriva solo adesso è legato alla pubblicazione dell’edizione International, prevista per il 9 dicembre. Un’uscita fondamentale perché, finalmente, include la tanto attesa localizzazione italiana, assente nella versione del 2022.

Una lacuna non da poco, considerate le numerose sfumature narrative del gioco e l’importanza che testi e dialoghi rivestono per comprenderne davvero la struttura. L’arrivo dell’italiano rende infatti il titolo immediatamente accessibile a tutti, dai neofiti incuriositi dalla serie SaGa ai veterani che magari l’avevano già giocato in passato e che ora possono assaporarlo con una naturalezza prima impensabile.


Giocata su PlayStation 5, questa nuova edizione mi ha accolto con la tipica freddezza dei giochi che pretendono di essere compresi senza concedersi del tutto. C’è uno spaesamento iniziale, una sensazione che ti fa dubitare del ritmo e della direzione da seguire, ma appena le meccaniche iniziano a ingranare si ha la sensazione di correre su un binario improvvisamente più limpido. 

La mia partita ha superato senza difficoltà le sessanta ore, e ciò non tanto per necessità quanto per piacere. La fluidità si mantiene invariata, senza cali di prestazioni o incertezze. È sorprendente vedere come un titolo con radici così remote trovi un’efficacia quasi naturale sulle console odierne.

Il cuore del gioco rimane la storia, o meglio, l’insieme di storie che compongono il mosaico di Mardias, un continente nato dal primordiale Marda e teatro secolare di un conflitto tra la divinità benevola Elore e tre entità oscure: Saruin, Schirach e il Dio della Morte. Lo scontro millenario termina con la caduta di questi ultimi, con Saruin costretto ai margini dell’esistenza grazie al sacrificio dell’eroe Mirsa e al potere delle dieci Pietre del Destino.

Questa cornice mitologica prepara l’ingresso al presente narrativo, ambientato mille anni dopo, quando i segni del ritorno del male ricominciano lentamente a manifestarsi.

È qui che entrano in gioco gli otto protagonisti selezionabili: Albert, erede nobiliare di Rosalia; Aisha, giovane nomade Taraliana; Jamil, ladro scaltro di Estamir; Claudia, arciera cresciuta da una strega nei boschi di Mazewood; Hawke, pirata dal passato impetuoso; Sif, guerriera temprata dal gelo di Valhalland; Gray, avventuriero sempre alla ricerca di qualcosa; e Barbara, artista itinerante che ho scelto come volto della mia avventura.

Minstrel Song è un JRPG a turni solo in apparenza.

Ognuno di loro è portatore di un filo narrativo distinto, che a volte si intreccia discretamente con quello degli altri personaggi reclutabili e altre volte resta autonomo, mantenendo intatto quel senso di individualità che rappresenta uno dei marchi di fabbrica della serie.

A legare il tutto c’è la figura del Menestrello, un individuo enigmatico che funge da guida silenziosa, intervenendo nei momenti cruciali come se conoscesse segreti che non è disposto a rivelare del tutto. La sua presenza trasmette l’idea che ciò che stiamo vivendo appartenga a un racconto più ampio, una leggenda tramandata attraverso i secoli e rivissuta ogni volta sotto forme diverse.

Il parallelismo con gli Octopath Traveler affiora spontaneamente, non tanto per imitazione quanto per ascendenza. È come se il tempo avesse invertito le correnti e ora ci trovassimo davanti all’antenato che ha generato quelle stesse idee portate oggi alla ribalta da Square Enix.

Libertà esplorativa, intrecci narrativi indipendenti, un mondo che non aspetta il giocatore ma si trasforma con lui: tutto sembra nascere proprio qui, in questo vecchio titolo che non smette di sorprendere.

La forza di Mardias risiede nel suo dinamismo. Il sistema degli scenari liberi modifica infatti il comportamento del mondo sulla base delle azioni del giocatore. Missioni che si attivano o svaniscono, PNG che cambiano posizione, territori che mutano condizioni. Non è un open world nel senso moderno del termine: le mappe sono ampie, ma delimitate da confini invisibili che riportano direttamente all’epoca SNES.

Tuttavia, la sensazione di trovarsi in un mondo vivo rimane intatta, sostenuta da un level design vario fatto di caverne, torri abbandonate, boschi intricati, rovine e deserti che sembrano voler essere esplorati pezzo per pezzo.

Le abilità sul campo completano il quadro. Si tratta di tecniche come il salto, l’arrampicata o la disattivazione delle trappole, necessarie sia all’avanzamento sia alla scoperta di passaggi segreti. Curioso il fatto che non siano disponibili fin da subito, ma vadano acquistate e potenziate presso un misterioso incappucciato che appare in alcune città. Un’idea che ribadisce una volta di più la filosofia della serie: nulla è mai immediato, nulla è concesso senza impegno.

Sul fronte del gameplay, Minstrel Song è un JRPG a turni solo in apparenza. Al suo interno, infatti, si stratificano meccaniche che sembrano voler complicare deliberatamente il quadro. Non esistono livelli tradizionali, né punti esperienza accumulati a fine battaglia.

La crescita avviene in modo organico, battaglia dopo battaglia, con nuove tecniche che si sbloccano usando determinate armi e magie acquistabili nei templi o dai mercanti. I personaggi hanno due tipi di vitalità: i Punti Forza, che si rigenerano a fine scontro, e i Punti Vita, molto più preziosi perché rappresentano la resistenza complessiva del personaggio all’interno dell’avventura.


Ogni azione in battaglia richiede Punti Battaglia, che si ripristinano a ogni turno, mentre le armi possiedono una loro durabilità destinata a consumarsi con l’uso di tecniche particolarmente complesse. Un sistema volutamente articolato, che pretende attenzione e che al tempo stesso premia la sperimentazione.

Invecchiato bene?

La meccanica più controversa rimane l’Event Rank, che regola la crescita dei nemici sulla base di quante battaglie abbiamo affrontato. Più combattiamo, più il mondo diventa ostile. Una scelta audace, forse persino rischiosa, che può portare a picchi di difficoltà improvvisi, soprattutto durante scontri concatenati o contro boss che non esitano a punire ogni minimo errore.

L’unico modo per bilanciare la situazione è completare missioni, ottenere oro, potenziare classi e abilità riducendo il consumo di PB e PD. È qui che Romancing SaGa dimostra la sua anima più autentica, scoraggiando un’idea di progresso lineare per abbracciare un ritmo più ragionato.

Il grinding è inevitabile, ma la sua molteplicità di percorsi e la presenza della Nuova Partita+ lo rendono meno ripetitivo di quanto sembrerebbe su carta. Ogni run diventa un’esperienza a sé, favorita dalla natura frammentata e ricca di strade alternative della narrativa stessa.

Un ruolo importante lo gioca infine la colonna sonora, che alterna melodie cittadine forse troppo simili tra loro a temi più incisivi nelle battaglie e nelle aree selvagge. Alcune tracce rimangono impresse, altre svolgono il loro dovere senza eccellere, ma nel complesso l’accompagnamento musicale sostiene il tono leggendario del viaggio, completandolo senza mai sovrastarlo.