di Gian Luca Bauzano

Una sorta di traguardo nel percorso artistico di Chailly legata al profondo innamoramento di questo colto direttore per un musicista che ritiene geniale

Ore e ore passate in sala di registrazione ad ascoltare brani musicali. Improvvisamente Stanley Kubrick si imbatte in un malinconico valzer, il secondo tratto dalla Jazz Suite di Šostakovič. Lo trova perfetto per incorniciare l’apertura e la conclusione della sua ultima fatica cinematografica, Eyes Wide Shut. Il regista è sedotto dalla nostalgia di cui è intrisa l’interpretazione. Porta la firma di Riccardo Chailly alla guida del Concertgebouw di Amsterdam. In esso il direttore ha profuso la profonda passione per il compositore russo, dall’esistenza artistica e personale così travagliata. Chailly ora lo ha scelto come protagonista del prossimo 7 dicembre, serata inaugurale della stagione del Teatro alla Scala, portando in scena l’altrettanto travagliatissima partitura di Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, scritta da Sostakovic a 24 anni tra il 1930 e il 1932, e andata in scena nel 1934 per la prima volta a Leningrado.

Riccardo Chailly: «Un caposaldo del Novecento. Sogno che Irina, la vedova, possa essere con noi»

Una scelta che rappresenta una sorta di traguardo nel percorso artistico di Chailly come direttore musicale scaligero, ma in realtà legata al profondo innamoramento di questo colto direttore per un musicista che ritiene geniale. «Quando nel 2015 mi sono insediato alla Scala come direttore musicale, due sono stati subito i miei capisaldi programmatici: il grande repertorio del melodramma italiano, Verdi e Puccini, e la scuola russa. In particolare Šostakovič». Questi è il nuovo capitolo del lungo percorso iniziato negli anni della direzione artistica scaligera di Abbado, quando Chailly affronta al Piermarini The Rake’s Progress di Stravinskij, e a seguire La fiera di Sorocincy di Musorgskij, L’angelo di fuoco Prokof’ev e sempre di Musorgskij Boris Godunov.



















































Riccardo Chailly: «Un caposaldo del Novecento. Sogno che Irina, la vedova, possa essere con noi»

La folgorazione per Šostakovič ha luogo nel 1972, quando sempre alla Scala uno Chailly 19enne ascolta Il Naso, la prima opera scritta dal compositore russo (1930), diretta da Bruno Bartoletti. «Portare ora al Piermarini Una Lady Macbeth, al di là dell’anniversario per il 50esimo dalla scomparsa del musicista avvenuta a Mosca nel 1975, significa in realtà restituire a quest’opera il suo ruolo centrale nella musica del Novecento. Recuperare gli anni di “esilio forzato”, orrendamente perduti a causa delle ingerenze politiche nella sua arte. Un intervento che lo spinse a ripensare la partitura della Lady per assecondare i diktat di Stalin. Ne restò segnato per sempre». Šostakovič debutta con Una Lady Macbeth nel 1934: un trionfo. Seguono due anni di repliche. Stalin assiste a una di queste solo nel 1936 e arriva la scomunica politica con un articolo sulla Pravda dove l’opera è bollata come «Caos invece di musica». Il compositore è obbligato a riscrivere la partitura per emendare le sue colpe artistiche: nasce Katarina Izmajlova, andata in scena per la prima volta nel 1963. 

«Alla Scala porto la prima versione della Lady. Lo faccio con orgoglio». Perché? «In occasione della tournée della Scala in Russia nel 2016, dirigevo il Requiem di Verdi. Alla fine della serata venne a salutarmi Irina Supinskaya, vedova e terza moglie di Šostakovič. Mi portò in dono una copia anastatica della partitura autografata della XIII Sinfonia. Ne approfittai e le dissi: “Vorrei dirigere Una Lady Macbeth. Ma quale partitura?”. Non rispose. Mi fissò e con una luce nello sguardo mi fece capire che dovevo ritornare all’origine, a ciò che il marito aveva scritto prima di asservire il suo genio alla politica. Una Lady è nello stesso tempo punto di partenza, Sostakovic aveva soli 24 anni quando inizia a comporla, ma anche di arrivo della sua intera carriera di compositore». Oggi Irina ha 91 anni e Chailly l’ha invitata alla serata inaugurale: «Spero possa intervenire per condividere assieme questo momento».

La politica è una sorta di coprotagonista di quest’opera. E la politica, il conflitto russo-ucraino, sono quotidianità dei media contemporanei. Una scelta che verrebbe da pensare non casuale. «Siamo tutti consapevoli di ciò che accade nel mondo. Ma la scelta, così come è accaduto tre anni fa inaugurando la stagione scaligera con Boris Godunov, non è legata a nessun retro pensiero politico. Al contrario è la conferma che cultura e arte devono essere super partes. Da questo deriva l’obbligo sociale di difenderle e diffonderle». Altro elemento nodale di questo lavoro è la figura della protagonista Katerina Izmajlova, tre omicidi, il marito, il suocero e la rivale che seduce il suo amante. Una Lady popolare, amorale e peccatrice, accecata dall’erotismo ma all’estrema ricerca di libertà. «Difendere un’omicida? Certo che non è possibile, come non è accettabile giustificarne gli atti criminosi. Però Katerina è una ribelle. Vittima di un’esistenza incolore, un matrimonio grigio, le molestie del suocero. La sua è un’esistenza senza speranza da cui però cerca riscatto. E alla fine il pubblico parteggia per lei. Più che giustificarne le scelte estreme, ne comprende la necessità di averle fatte spinta dalla disperazione».

Cronologicamente questa è la quarta volta che questo titolo approda al Piermarini: la prima nel 1964 come Katerina Izmajlova, il debutto in Italia, poi nel 1992 e nel 2007 come Una Lady Macbeth. Affrontare una produzione di questo impegno cosa ha comportato per orchestra, cast, regista? «Siamo accomunati da una costante scarica di adrenalina pura. La regia di Vasily Barkhatov (al debutto scaligero, ndr), ha tratteggiato con eleganza questa vicenda così cupa. Il soprano Sara Jakubiak è perfetta per il ruolo della protagonista, in sintonia con il resto del cast. Ha dato profondità al personaggio. In particolare a due momenti a me molto cari: resto attonito ogni volta che li affrontiamo. Sono le due grandi romanze di Katerina nel primo e quarto atto. La prima per la bellezza del canto, la seconda per quel drammatico senso di disfacimento dell’esistenza e di annichilimento che Šostakovič evoca con una scrittura dalla forza mahleriana».
Un impegno monstre affrontato da Chailly attraverso un suo personale elisir: la costante lettura de La conquista della felicità di Bertrand Russell. «Sempre vicino a me, non me ne separo mai. Ma lo leggo con il contagocce. Instilla serenità interiore e aiuta a gestire le grandi emozioni. Una vera iniezione di serenità del vivere».

6 dicembre 2025 ( modifica il 6 dicembre 2025 | 15:41)