«Una sedia è una sedia, una sedia, una sedia. L’arte è arte e non spetta a nessuno definirla». Eppure, le arti sono state spesso distinte in maggiori e in minori, specialmente in Italia, forse anche per quella cultura idealista che nel nostro paese ha resistito più a lungo che in altri. «Non era vietato a Michelangelo o a Raffaello disegnare una sedia», il metodo per studiare un quadro deve essere, perciò, lo stesso che si utilizza per un oggetto d’arredo: e se tutti «gli aggettivi destinati a spiegare le arti sono spesso inutili quando non offensivi, il meno insinuante è arti decorative, il più assurdo è arti minori».
Della validità di questa sua osservazione, Alvar González-Palacios ha dato prova in tanti suoi libri: tanti, che sarebbe lungo farne l’elenco, e basterà ricordare i due titoli forse più famosi, Il tempio del gusto (Longanesi, 1984) e Il gusto dei principi (Longanesi, 1993).
Il metodo è uno ed è, in fondo, lo stesso che risale a Giovanni Morelli: quello del confronto dei particolari. Per attribuire un’opera d’arte Morelli guardava i dettagli più inosservati delle figure, come l’unghia di un piede o la forma dei lobi di un orecchio, e se l’applicazione troppo meccanicamente positivista di questo metodo gli attirò non poche ironie, lo studioso avrebbe potuto evocare la famosa frase di Flaubert che Dio si nasconde nei dettagli.
González-Palacios ha aggiunto all’insegnamento di Roberto Longhi, basato sulla virtù divinatoria dell’occhio, lo studio dei materiali d’archivio, di lettere, documenti, diari, memorie, e anche di quadri alle volte, nei quali possono trovarsi utili informazioni sugli interni di un’epoca, quando non, altre volte, raffigurazioni di un mobile in particolare o di modelli assai simili.
In tal maniera, lo studioso cubano ha potuto analizzare non solo gli oggetti ma anche il gusto dominante nel periodo in cui essi sono stati disegnati, scolpiti o intagliati. Il magistero di Longhi s’è andato così a unire a quello di un altro grande storico dell’arte, amico e maestro, Mario Praz.
Oggi le ricerche di González-Palacios, fino a qualche mese fa supportate dal prezioso aiuto del compianto Roberto Valeriani, hanno prodotto due doviziosi volumi, stupendamente impressi dall’editore Ugo Bozzi, che ha provveduto anche a nuove campagne fotografiche: Il Mobile a Roma dal Rinascimento al Barocco e, uscito da poco, Il Mobile a Roma il Settecento (pp.540, 546 illustrazioni di cui 336 a colori, e 300,00).
Di come si possano attribuire allo stesso ambito, quando non alla stessa bottega, due arredi, come si fa con due dipinti, l’autore lo mostra già nei primi capitoli in cui, descrivendo alcuni Progetti per le carrozze dei Crescenzi e dettagli conservati a Dresda, evidenzia come il comune linguaggio di «mascheroni alati, testine muliebri capricciosamente posate su frammenti architettonici (le espagnolettes care a Terrier), intricati profili ininterrotti ad arte», riveli la vicinanza di queste carrozze con alcuni coevi tavoli in legno scolpito, appartenuti a importanti famiglie romane.
Con la stessa attenzione alle caratteristiche più peculiari di ogni linguaggio, González-Palacios ha percorso l’intero Settecento, dai decenni successivi alla morte di Bernini (col quale andò svanendo «la forza prorompente» del barocco, dimodoché le forme dei mobili cominciarono «a snellirsi, seguendo il gusto più delicato che sembra iniziare Oltralpe, tra Francia e Germania, poi chiamato Rococò») fino all’avvento dei grandi spiriti neoclassici, Piranesi e Valadier.
Il mobile rococò, che costituisce la materia di alcuni capitoli iniziali del volume, ebbe una diffusione piuttosto limitata a Roma. Questo gusto, che ha un’aria di parentela con le digressioni dei romanzi di Sterne e di Diderot e col canto fiorito (tanto vituperato da Francesco Algarotti nel suo Saggio sopra l’opera in musica), dette i suoi esempi più sbrigliati soprattutto in Germania.
Ne abbiamo, tuttavia, una delle più gustose caricature di pugno di un francese, il Cochin, il quale scrisse in questi termini la sua Supplica agli orefici: «Gli orefici sono pregati, quando eseguono sul coperchio d’un orciolo un carciofo o una gamba di sedano a grandezza naturale, di non mettervi accanto una lepre grande come un dito; …di non mutare la funzione delle cose e di ricordarsi che un candeliere deve essere dritto e perpendicolare per poter reggere una candela; …che un bocciuolo deve essere concavo per poter ricevere la cera che cola, e non convesso per farla spandere sul candeliere», e così via.
Asimmetria, dunque, e una voluta, che, già barocca, sminuzzata, si fa riccio (non è un caso che il capolavoro letterario del rococò inglese si intitoli appunto The rape of the Lock): tratti che González isola mirabilmente in alcuni arredi e in particolare nei tavoli di Palazzo Corsini. Uno di questi, risalente al 1770 circa, «ha un intaglio composto da motivi floreali e di foglie; la traversa è centrata da un cesto colmo di fiori e le zampe a doppia curva risultano allietate da volute e motivi fitomorfi e poggiano su zoccoli caprini». In un altro «la parte centrale della traversa è invece composta felicemente con quel che appare un ghirigoro di curve, controcurve e fiori che già prelude alla forma tipica del rococò romano».
L’asciutta eleganza dei passi appena riportati s’illumina di un sotterraneo lirismo quando a essere descritte sono le opere degli artisti più amati da González, come Piranesi, Valadier o Piffetti.
Ed è proprio di quest’ultimo il paliotto con lo stemma di Benedetto XIV (dono del cardinale torinese Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze), realizzato nel 1747-’48, che «nel suo abile contrapporre fiori di legno al campo iridescente della madreperla, virgolato dalla luce matta dell’avorio e dalla trasparenza cupa della tartaruga, raggiunge una lietezza delicata non tocca da lusso forse eccessivo: ci può essere nobiltà senza fasto»: un passaggio che ha tutte le qualità della scrittura di Alvar González-Palacios.
Ma un lirismo soffuso sottende non soltanto alle singole pagine. Giacché questi due volumi su Il Mobile a Roma rappresentano in fondo il libro di una vita, pieno com’è di ricordi di luoghi visti e di persone conosciute: il recto di un mestiere amato, il cui verso è stato raccontato più volte dallo stesso autore, anche in libri relativamente recenti come Persona e maschera (Archinto, 2014) e Forse è tutta questione di luce (Salani, 2022).
Così in filigrana all’analisi di tanti oggetti emergono, appena accennate, le figure di amici come Raniero Gnoli o Fabrizio Apolloni, di antiquari, collezionisti, studiosi, e i ricordi di aste o di mobili visti nelle case. Forse anche di ombre e mondi passati. Giacché gli stipi, le panche e i tavoli, dei quali si dà conto nei due volumi, non sono stati esclusivamente sfogliati nelle pagine dei cataloghi, nei regesti o negli studi, né soltanto osservati nell’imbalsamazione perpetua di un museo: spesso, molto spesso, si tratta di oggetti segnalati da amici o veduti negli appartamenti di eredi o compratori.
Le cose vanno quasi naturalmente a chi le cerca e le desidera, come credo affermasse Edmond de Goncourt ne La maison d’un artiste, in cui, se ben ricordo, lo scrittore auspicava quale destino per le sue collezioni di lacche, mobili, stampe e porcellane la vendita a un’asta dove avrebbero trovato chi li amasse.
E se Alvar González-Palacios in questa sua recente fatica ha fornito una magistrale prova di come con rigore scientifico si possano studiare i mobili, stabilendo quegli stessi rapporti e quelle stesse filiazioni su base stilistica che si applicano all’analisi di una scultura, di un edificio o di un dipinto, ha reso, al contempo, una profondo omaggio al proprio mestiere, nonché a un’epoca in cui «i rapporti fra gli studenti, gli studiosi, gli antiquari, i collezionisti, erano molto più semplici» e bastava «una cravatta per essere ricevuti ovunque – come si era fatto a Versailles ai tempi di Luigi XV».
I molti ringraziamenti che chiudono l’introduzione credo siano qualcosa di più che delle semplici cortesie rituali: sono il segno di una comune maniera di intendere l’arte e il mondo.