di
Paolo Salom

Con l’indice di fecondità che crolla, Pechino prova a stimolare le nuove nascite. L’ultima misura è l’Iva sugli anticoncezionali

L’incubo cinese è tutto nei numeri. O meglio, in una singola cifra che fotografa impietosamente il futuro del gigante d’Oriente: 1,0. La virgola, a dividere l’uno dal nulla, è necessaria soltanto perché parliamo del tasso di fecondità per donna che in questa fine di 2025 è crollato oltre ogni più cupa previsione. Un figlio in media per donna in un Paese di un miliardo e 400 milioni di anime significa che non si raggiunge il minimo indispensabile per rimpiazzare i decessi e, dunque, la popolazione ha imboccato l’autostrada per il declino.

Le statistiche non hanno sentimenti. E nemmeno affiliazioni politiche. La Cina non è certo l’unico Paese del mondo avanzato a combattere contro la denatalità. L’Italia, per esempio, ha toccato il (suo) fondo con 1,18 figli per donna. Il Giappone, vicino e rivale della Cina, è a 1,16. Numeri molto prossimi che stimolano — nei governi — politiche diversissime. Se in Occidente si sono aperte le porte all’immigrazione per provare a sanare i buchi attuali e futuri nelle scuole e nelle fabbriche (e soprattutto nella previdenza), in Oriente si pensa in modo differente: per ragioni storiche e sociali le porte agli stranieri (a un gran numero di stranieri da accogliere e integrare) restano chiuse. La premier giapponese non se ne fa un cruccio: «Meglio un Giappone più “piccolo” ma omogeneo e coeso», ha detto di recente a chi le chiedeva lumi sulle possibili politiche di assorbimento di lavoratori dall’estero.



















































La Cina — mantenendo la stessa nozione di «identità etnica» esclusiva — ha sfoderato i possibili rimedi sulla falsariga delle campagne collettive passate. Se è vero che gran parte del problema di oggi è dovuto alla politica del figlio unico introdotta nel 1979 da Deng Xiaoping per evitare l’eccessivo accrescimento della popolazione, aumento che vanificava la corsa del Pil, oggi — paradosso imprevedibile — è proprio la ricchezza raggiunta in soli quattro decenni ad avere appiattito «naturalmente», come in ogni economia matura, il desiderio di fare figli.

Così, nel 2015 Pechino ha finalmente permesso alle coppie di fare due figli. Ma niente: i due figli sono restati nel mondo dei desideri. Quindi nel 2021 si è passati a tre figli per coppia. E infine: parto libero. Soltanto che i cinesi hanno continuato per la loro strada: un figlio (o nessuno) e concentrarsi su lavoro, carriera, vita privata.

Un unicum nella Storia millenaria dell’Impero Celeste, dove fino al Dopoguerra gli uomini facoltosi potevano permettersi un numero illimitato di mogli e, dunque, figli. Un Paese che con Mao, come nell’Italia di Mussolini, teorizzava che «il numero è potenza».

Oggi, la politica prova a far cambiare idea ai giovani cittadini con incentivi e… tasse. I primi sono veri e proprio voucher destinati a chi si sposa: soldi contanti per stimolare la ritrosia verso il «sì» ufficiale (i figli fuori dal matrimonio sono tuttora un tabù); facilitazioni nelle iscrizioni dei bambini negli asili nido; congedi per la gravidanza. Le seconde sono un po’ più farraginose da comprendere, eppure saranno legge a partire dal 1° gennaio 2026, quando l’Iva su profilattici e pillola anticoncezionale — abolita nel 1993 — sarà reintrodotta, al 13%. L’idea: rendere più difficile l’acquisto di questi strumenti «antisociali».

Il cerchio, insomma, si è chiuso. Ma i risultati si faranno attendere o comunque saranno ben diversi da quello che sperano i dirigenti. «Se un giovane — si legge su Weibo, il Twitter cinese — non ha soldi per un condom, o per la pillola, difficile ne abbia per crescere un figlio».

L’anno scorso, 6,1 milioni di coppie si sono registrate per sposarsi (nel 2023: 7,68). E la gran parte di loro, dicono le statistiche, avrà un solo figlio. Tasse o non tasse.

6 dicembre 2025