di
Walter Veltroni
La classe, la famiglia, i silenzi, le cadute e le risalite di un 23enne. «A scuola non è più voluto andare e per me è stata una tragedia»
Marta, il cognome non serve, è una donna segnata e combattiva. Suo figlio per anni, troppi anni, ha deciso di chiudere la porta della sua stanza e di isolarsi dal mondo. Marco, il figlio che Marta ama, a un certo punto ha deciso che non voleva più andare a scuola, non voleva fare altro che stare tra le sue quattro mura, il computer come finestra sul mondo. Lo si è chiamato «hikikomori», ma è un termine che funziona come un’attache che riunisce mille storie diverse, non un protocollo sempre uguale.
«Mi considero una donna mentalmente indipendente e autonoma. Prendo le decisioni per conto mio. Ora sono divorziata e ho educato i miei due figli: la maggiore ha ventisette anni e Marco ne ha venticinque. Sono fiera di aver dato loro l’idea di indipendenza intellettuale ed economica. Ho sempre creduto che lo studio aprisse molte porte. Durante la mia giovinezza, negli anni ‘50 e ‘60, avevamo molti sogni e ambizioni. E sono felice di averli conosciuti e vissuti. Studiare era la chiave di tutto. Ho frequentato veterinaria a Pisa, un’esperienza dura per me, dato che ero lontana da casa. Ma ce l’ho fatta. Dopo la laurea, sono tornata a Roma e ho iniziato a lavorare in un ente di ricerca, occupandomi di biomedicina. Qui ho conosciuto il mio ex marito; ci siamo sposati e abbiamo avuto due figli. Dopo quasi sedici anni di matrimonio, ho deciso di lasciarlo perché mi sentivo molto sola».
Com’era Marco da bambino?
«Fino a un anno è stato invisibile. Un bambino buonissimo, direi un osservatore. Socievole, non è stato un bambino particolarmente difficile. Poi, da quando ha cominciato a camminare, ha camminato sempre dall’altra parte. Era un bambino “oppositivo”. Marco andiamo di qua. No, no. Un bambino sfidante, certo più della sorella che invece è sempre stata molto accondiscendente. Quando sgridavo Marco e lo mettevo all’angolo, dopo due minuti se ne andava. Giorgia, la grande, ci poteva stare mezza giornata. Finché io non la richiamavo, non si spostava. Marco piangeva a ogni compleanno, ogni situazione di emozione lo metteva in crisi. La nostra colpa è stata sottovalutare questa sensibilità, i suoi stati d’animo. Ha sofferto molto la separazione e anche la mia scelta di trovare un’altra casa, con loro. La psicologa che abbiamo incontrato con mio marito ci ha detto che per i bambini lasciare la casa, specie per effetto del trauma di una divisione degli affetti più cari, è come essere strappati dal nido. Altra sottovalutazione, altro errore. Marco aveva sei anni, Giorgia otto. Quando siamo andati nella nuova casa, ogni distacco da me era un dramma. All’asilo la maestra ci disse che Marco non stava alle regole e ci chiese se in casa ne avevamo. Le dissi che forse ne stabilivamo anche troppe: a tavola si sta composti, non si risponde male, niente parolacce. Siamo stati una famiglia un po’ rigida. Non severa, ma ci tenevamo a fissare dei paletti del comportamento. Ricordo che in prima liceo, a una cena di classe, i ragazzi si alzarono tutti dal loro tavolo e Marco, tra lo stupore degli altri genitori, venne da me a chiedere se poteva farlo.
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Alle medie è cominciato il calvario. Si sentiva inadeguato, come un marziano tra i suoi compagni di classe che parlavano solo di cose che non lo interessavano. Si sentiva tagliato fuori, emarginato. Cominciò ad invidiare un ragazzo che era un po’ il bulletto della classe, gli piaceva forse la sua totale, quasi anarchica, libertà. Marco è sempre stato molto bello, intelligente e a scuola, alle medie, andava bene. Ma lì qualcosa ha iniziato a corrodere la sua fiducia negli altri, a destrutturare la sua presenza nel mondo. Lui ci ha sempre rimproverato di non averlo ascoltato, di non averlo capito. “Alle medie mi hanno bullizzato e voi non mi avete creduto”, è stata la sentenza che ci ha inchiodato.
Al primo anno di scientifico la crisi è esplosa. La scuola era severa. Ma quell’anno Marco ha avuto un professore di italiano del quale era entusiasta. Portava il giornale in classe, ascoltava le opinioni dei ragazzi, consentiva loro di esprimersi, non solo dire quello che sapevano. Ma era un supplente e credo che mio figlio abbia sofferto quando ha capito che sarebbe andato via. Questa è una cosa che nella vita di Marco torna sempre. Lui dice: “Non voglio essere giudicato per quello che so, ma per quello che sono”. Perché lui si riconosce delle capacità. Ma soffre perché gli altri si limitano a giudicarlo, non hanno interesse a esplorare la sua interiorità. La scuola gli sembrava più un’aula di tribunale che un laboratorio di ricerca. “Mi puoi anche giudicare male ma mi devi conoscere, no? Quell’anno, nel primo trimestre, Marco andava benissimo. Ricordo un episodio singolare. La professoressa di latino mi disse in corridoio davanti a mio figlio: “Marco deve essere un esempio per tutta la classe, noi li vogliamo così: intelligenti, svegli, decisi. Deve essere un esempio per tutta la classe, altrimenti questi cinesi ci si mangiano a tutti”».
I cinesi?
«Sì aveva paura dei cinesi. Comunque l’otto gennaio, alla ripresa delle lezioni, Marco non è più voluto tornare a scuola ed è stata una lotta portarcelo. Ogni giorno urla e strilli. Noi eravamo spiazzati da questa fuoriuscita dal progetto educativo, improvvisa. E qui un altro errore: abbiamo scambiato un disagio profondo con i sintomi tipici dell’età adolescenziale. Scambi un dolore per una ribellione, confondendo l’ordine dei fattori. Pensi: eccola, è arrivata l’adolescenza, cominciano i conflitti. Ma era di più, molto di più».
La mattina Marco cosa diceva?
«Niente, si metteva sotto al piumino, ho mal di testa, ho mal di pancia, non me la sento. E poi ha cominciato a giocare al computer».
Che gioco, Fortnite?
«No, si è appassionato a League of Legends. Passava le giornate così. La porta chiusa, sdraiato sul letto, con il telefono in mano e questo gioco come sua amata ossessione che, in effetti, era come un’anestesia. Poi ha cominciato a non venire a cena con noi. A scuola almeno un giorno a settimana non andava, diceva di annoiarsi».
Ma gli insegnanti non le dissero nulla?
«No, non si accorsero o sottovalutarono. Alla fine fu promosso. L’anno dopo gli abbiamo cambiato scuola, per fargli ritrovare i suoi amici delle medie. Amici, perché a Marco non sono mai mancati né loro né le ragazze, nonostante la sua autoreclusione».
Lui era d’accordo ad andare in questa nuova classe?
«Sì, era contento. Ma purtroppo non portò nessun beneficio. È andata quasi peggio, la preside con la quale parlammo fu molto severa: “Tutti venite da quella scuola pensando che qui si studi di meno, ma vi sbagliate”. Insomma gli ha fatto una ramanzina, invece di accoglierlo. I professori si sono presto innamorati di Marco perché dicevano che partecipava, poneva domande…Però poi ha cominciato a fare tante assenze. Quando andavo a parlare coi professori mi chiedevano: “Ma perché Marco viene poco?”. “Non lo so, me lo dica lei”. Io ero confusa, completamente spiazzata da questo comportamento di mio figlio. E di nuovo, dopo Natale, il ritiro progressivo nella sua stanza, andava a scuola il minimo necessario per non superare il 40% delle assenze con le quali si viene bocciati. Quell’anno ce la fece».
Ma i suoi amici, quando lui si chiudeva in quella stanza?
«Sono spariti, ma era giusto così. A 15 anni fai fatica a farti carico del disagio degli altri, stai attraversando il tuo percorso a ostacoli, quella pista accidentata che è l’adolescenza. Ricordo che il giorno del compleanno di Marco invitai il suo amico del cuore e lui lo abbracciò piangendo».
Ma quella porta restava chiusa…
«Sì. Ho tolto le chiavi, le ho tolte per evitare che si chiudesse in modo definitivo. E perché, sinceramente, ho anche avuto paura del peggio. Marco vieni a mangiare con noi? No. Qualche volta ho insistito, qualche volta no, ma, se arrivava mio padre a pranzo, lui lo accoglieva sempre a braccia aperte». Voi cosa avete fatto, di fronte a quella porta serrata? «Abbiamo iniziato un percorso con una psicologa, molto severa. Mi piaceva. Disse a me che ero una presenza troppo morbosa e a mio marito che era troppo assente. Due opposti, entrambi nocivi per Marco. E ci ha raccomandato di non togliergli il computer, il suo contatto col mondo».
Nel corso di una giornata lei quante volte aveva la possibilità di parlare con Marco?
«Praticamente sempre. Tutti i giorni mi affacciavo e gli chiedevo “Come stai?” Lui rispondeva: ”Bene, bene». Punto e basta? «Sì, ho sempre cercato di coinvolgerlo in qualcosa, musica, sport. Vuoi fare qualcosa? Lui rispondeva: “Niente, sto bene così” Gli dicevo:” La vita non verrà mai dentro questa stanza, sei tu che devi andare incontro alla vita”. In terza liceo andava un po’ di più, ma si addormentava in classe perché passava la notte a giocare al computer. Lui diceva che si annoiava, ma in realtà stava alterando il rapporto tra giorno e notte, quello che succede ai ragazzi che vivono questo disagio. In quarta liceo è stato il disastro. Ha proprio smesso di andare e per noi è stata una tragedia. Quando vedevo per strada i ragazzi che all’uscita da scuola ridevano e si abbracciavano mi veniva da piangere pensando che Marco, e noi, non potevamo vivere la stessa gioia. Lo abbiamo iscritto in una scuola privata dove non c’era stress: niente interrogazioni, niente giudizi. Per lui era meno pesante, ma alla fine di quell’anno ha deciso che basta, non avrebbe fatto il quinto, neanche nella privata. Per un anno è stato chiuso nella sua stanza. Allora ho deciso che saremmo andati, lui ed io, a vivere in campagna. E paradossalmente la sua decisione così netta di non andare a scuola ha avuto un effetto positivo. Smettendo di avere l’ossessione ogni mattino — andrà o non andrà? — ho ridotto la pressione su di lui. Poi è stato Marco stesso a dirmi di guardare i video di Marco Crepaldi, presidente dell’associazione Hikikomori, e così mi sono avvicinata a loro, ed è stato bellissimo. Improvvisamente non mi sono più sentita sola, ho potuto condividere la mia storia, capire quanti punti di contatto ci fossero con le vicende di altre famiglie. Ci dicevano, giustamente: “Non stressate i ragazzi, non li caricate anche dei vostri problemi. Non pensate di far loro del bene accentuando il senso di colpa che è proprio il loro problema. Vivete la vostra vita e siate un esempio di vita sana. Una luce nel buio”. L’estate successiva ho detto a Marco: “Qui vicino c’è una scuola privata, l’Istituto Tecnico Agrario. Vogliamo andare a parlare col preside per vedere se c’è la possibilità di farti fare il quinto anno, magari integrando delle materie? Lo vedevo molto sereno. Intanto io avevo fatto il mio percorso e mi ero iscritta all’associazione Hikikomori. Lui ha apprezzato questa volontà di rimettermi in gioco e mi ha detto di sì. Abbiamo parlato col preside ma poi è successa una cosa incredibile. Tornando da questo incontro Marco in macchina mi ha detto: “Mamma, ma se io invece mi iscrivessi alla scuola statale?”. Mi sembrava di impazzire dalla felicità. Siamo andati dalla preside del liceo scientifico, una persona incredibile che ha capito subito quale era la situazione, ha parlato con Marco con un atteggiamento accogliente e gli ha suggerito delle soluzioni. Io sono uscita con le lacrime agli occhi. Per una persona come Marco, le parole cambiano il corso della vita. Si è iscritto e andava a scuola felicissimo. Ha comprato pantaloni, magliette, camicie, aveva vissuto in tuta per tanto tempo. Si è messo con una ragazza, ha conosciuto nuovi amici. Tutto bene, fino a marzo. Infatti era il 2020, ed è cominciato il lockdown. Quindi di nuovo a casa, stavolta obbligato. E quella follia della Dad. Ha preso la maturità, bene. Ma quella porta si è richiusa. Lui ha immense risorse e le ha messe in campo. Si è iscritto a un corso della Regione per “game developer” la sua passione, ha una ragazza, sogna di trovare un lavoro e di andare a vivere per conto suo.
Un giorno, poco tempo fa, sono tornata a casa e l’ho visto cupo, dopo giorni di serenità. Mi ha detto che si era svegliato con mille energie positive, ma che una mia telefonata lo aveva disturbato e mi ha ripetuto, quel giorno, che io e mio marito gli abbiamo distrutto la vita. Ma era stata una semplice telefonata, senza pressione. Spesso questi ragazzi precipitano in un gorgo dei loro stessi pensieri e si ingarbugliano. Abbiamo discusso, ma la mattina dopo è uscito di casa e mi ha portato dei maritozzi con la panna chiedendomi scusa. I più buoni maritozzi che abbia mai mangiato».
Questa è la storia di Marta e Marco. Come in Rashomon le stesse vicende della vita possono essere raccontate in molti modi diversi. Sarebbe bello un giorno, quando se la sentirà, ascoltare la voce di Marco. Il suo sguardo sul passato, ora che il futuro comincia a prendere forma, fuori da quelle quattro mura.
7 dicembre 2025 ( modifica il 7 dicembre 2025 | 10:38)
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