di
Davide Frattini

Il Corriere della Sera è entrato, con altri media internazionali, nella Striscia di Gaza: e a Rafah ha visto – circondato dalle rovine di una città svuotata dei suoi abitanti – il tunnel dove per oltre 4000 giorni Hamas ha tenuto nascosto il corpo di Hadar Goldin

DAL NOSTRO INVIATO
RAFAH – I blocchi di cemento sbriciolati sono le lapidi delle case in questo cimitero di palazzi che era una città palestinese, commemorano la storia delle stanze, la vita pietrificata di chi ci abitava: portava un pigiama a pois, leggeva le favole, ascoltava le favole, amava le moto che disegnava sull’album, mangiava i fagioli al sugo in scatola. Così fino all’orizzonte, fino al Mediterraneo: Rafah non c’è più, solo tumuli di calcinacci e frammenti di ricordi incastrati nelle rovine

La tomba di sotto è invece lunga 7 chilometri e stretta un metro. Qui per buona parte degli undici anni in cui è stato conservato come merce di scambio i terroristi di Hamas hanno tenuto il corpo di Hadar Goldin, il tenente israeliano ucciso nella guerra del 2014, la più lunga prima di questa che sembra non finire nonostante la tregua e gli annunci di un passaggio alla seconda fase del «piano di pace» voluto da Donald Trump. Il volto coperto dai passamontagna, i soldati delle forze speciali spiegano che negli ultimi 18 mesi l’unica loro missione è stata recuperare il cadavere di Hadar. Sapevano che lo nascondevano da queste parti, non immaginavano fosse in uno dei sistemi di gallerie più estesi tra quelli scavati dall’organizzazione fondamentalista, sviluppato in una metropoli densissima, tra la popolazione: depositi di armi, centri di comando, 80 sale a 25 metri di profondità – quanto un edificio di 7-8 piani – dov’era possibile arroccarsi anche per tempi lunghi, i condotti portavano l’ossigeno dalla superficie. 



















































In mezzo alla devastazione solo i cani restano cani. Annusano i cingolati del carrarmato, ci pisciano sopra, marcano il territorio per tornare a riconoscerlo, è una desolazione erosa dai riferimenti anche per loro: la polvere che inaridisce le narici, il poco cibo che ricevono dai soldati, i cortili che non ci sono più. Sono diventati i padroni solitari di questo mondo storto dai muri obliqui, senza i vecchi odori fiutano di aver perso quello di una volta. 

Il cunicolo è stretto e asfissiante, a quindici metri sotto la sabbia – dopo una porta di metallo – si aprono diverse diramazioni, a sinistra si scende di più, a destra il sentiero buio sembra risalire, almeno per i primi passi. «Proseguendo per qualche chilometro – racconta l’ufficiale di cui non è possibile pubblicare il nome, quest’articolo è stato visto dall’esercito che ha verificato la non diffusione di informazioni riservate – le gallerie si ricongiungono a quelle costruite a Khan Younis», la cittadina più a nord dov’era nato Yahya Sinwar, il capo dei capi e pianificatore dei massacri del 7 ottobre 2023, 1200 persone uccise nel sud di Israele, eliminato nell’autunno di un anno fa. Le pareti sono ricoperte di cemento armato, in alcuni punti puntellate da travi di legno, le ricetrasmittenti usate dai paramilitari di Hamas sono state lasciate appese ai chiodi arrugginiti, semplici walkie talkie per comunicazioni non intercettabili. Da quaggiù – aveva ricostruito l’intelligence – Mohammed Shabana muoveva la Brigata Rafah: è stato ucciso a maggio, un anno dopo che l’esercito aveva intensificato l’offensiva in queste aree verso il confine con l’Egitto. 

epa12580604 A photo taken while embedded with the Israeli Army and cleared by Israeli military censors shows Israeli soldiers from the special unit Yahalom in an underground tunnel in the Al-Shaboura neighborhood in Rafah, southern Gaza Strip, 08 ...

Il quartiere Shabura stava al centro di Rafah, un gruppo ristretto di testate (tra cui il Corriere, l’Economist, il Wall Street Journal) ha potuto raggiungerlo: essere accompagnati dai militari è l’unico modo per i giornalisti internazionali di entrare a Gaza, il governo israeliano continua a bloccare l’accesso indipendente. Non lontano è rimasto in piedi il relitto bianco e blu di una scuola dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Ormai fa tutto parte della zona gialla sotto il controllo di Tsahal, oltre il 50 per cento dei 363 chilometri quadrati. Agli abitanti è stato impedito di ritornare, solo poche centinaia di civili sono rimaste e sopravvivono tra queste rovine, il resto – oltre 2 milioni di persone, i palestinesi uccisi in totale sono più di 70 mila – è ammassato nell’altra metà scarsa della Striscia, altrettanto distrutta, dove le squadracce di Hamas stanno restaurando il dominio della paura con l’aggravio dei balzelli sulle merci già costose e scarse, regolano altri conti con i clan che hanno cercato di ribellarsi durante la guerra, freddano per strada i «collaborazionisti», un’accusa usata per sbarazzarsi dei pochi oppositori. 

L’occupazione militare – auspica Trump nella sua disattenzione ai fatti – dovrebbe essere temporanea. Eppure due giorni fa Eyal Zamir, il capo di Stato Maggiore, ha proclamato che «la Linea Gialla è il nuovo confine» e che le sue truppe «hanno libertà di manovra». Il premier Benjamin Netanyahu vola a Washington alla fine del mese per discutere con l’amico Donald i passi successivi, mentre esprime scetticismo sulle possibilità che una forza internazionale «possa disarmare Hamas. Toccherà a noi». Quindi per ora non sposta l’esercito, di certo non dà l’ordine di ritirarsi sulla demarcazione precedente ai due anni di conflitto: per Bibi, il primo ministro più longevo nella Storia del Paese, significherebbe anche ritirarsi dal governo, perdere il sostegno dei leader fanatici e messianici che lo puntellano.

«Tzipora ti amo» ha scritto con lo spray un soldato sconsiderato, che ha concentrato lo sguardo su quel cuore rosso senza vedere – o assimilare – la distruzione grigiastra attorno. Dopo le bombe, le ruspe hanno triturato la topografia urbana, hanno rimodellato anche i profili naturali del paesaggio, innalzato nuove dune dove adesso stanno appostati i carrarmati e i cecchini, scavate buche che sono crateri in parte per dissotterrare i tunnel in parte per spostare la sabbia e tirar su collinette che non esistevano: prendersi sempre il punto più alto fa parte della dottrina. 

I genitori di Hadar Goldin, ammazzato a 23 anni, non hanno smesso un giorno di cercarlo, sono stati 4118. Il padre Simha insegna all’università di Tel Aviv, studia il Medio Evo, tra i tempi bui per gli ebrei. Alla fine il corpo non è stato recuperato dai soldati ma restituito da Hamas un mese fa, parte dell’accordo di cessate il fuoco: dopo undici anni Simha ha potuto nominare il figlio nelle preghiere rituali per la sepoltura e ha continuato a nominare il politico che considera responsabile, quello che non si è mai preso alcuna responsabilità per il disastro del 7 ottobre: «Abbiamo implorato i governi perché intervenissero contro Hamas, perché obbligassero il gruppo a rimandarci Hadar. Non hanno agito per vigliaccheria. La mattanza del sabato nero avrebbe potuto essere impedita»

I generali e capi dei servizi segreti che erano ai vertici il 7 ottobre se ne sono ormai andati tutti. Solo Netanyahu – che era già al potere da 14 anni, difficile accusare i predecessori di sviste o mancanze – schiva qualunque attribuzione di colpa, manovra per evitare la commissione di Stato che possa indagare sulla sciagurata strategia di rifornire Hamas con milioni di dollari in contanti consegnati in valigie dall’ambasciatore del Qatar con il beneplacito del premier. Era convinto di poter comprare la calma, che lasciare Gaza ai fondamentalisti gli avrebbe elargito un pago uno prendi due: garantirsi un’apparente sicurezza e impedire qualunque piano per la nascita di uno Stato palestinese. Quest’ultimo resta l’obiettivo centrale anche se a parole accontenta la visione di un «nuovo Medio Oriente» vagheggiata da Trump.

epa12580590 A photo taken while embedded with the Israeli Army and cleared by Israeli military censors shows Israeli soldiers from the special unit Yahalom next to an underground tunnel in the Al-Shaboura neighborhood in Rafah, southern Gaza Strip...

9 dicembre 2025 ( modifica il 9 dicembre 2025 | 17:08)