di
Marco Galluzzo

Il vertice a Palazzo Chigi: l’Italia appoggia la fretta americana sulle trattative

Dietro la facciata di un incontro costruttivo e di reciproca fiducia, al di là dei comunicati ufficiali che rendono omaggio alla controparte (gli ucraini agli aiuti italiani, il nostro governo al sostegno di massicce garanzie di sicurezza per Kiev se verrà raggiunta la pace), quello che emerge dai 90 minuti di faccia a faccia fra Meloni e Zelensky è anche un’altra storia. Una storia in cui le pressioni dello staff ucraino su Roma sono state esplicitate in modo netto, sottolineando tutti i gap che stanno segnando l’indirizzo del governo italiano nelle ultime settimane, e una comunicazione della nostra premier che ha anch’essa i registri di un pressing franco, ma di marca opposta. E che in un concetto potrebbe essere riassunto in questo modo: «Considera che alcune concessioni dolorose forse sei costretto a farle».

Novanta minuti di confronto, preceduto da una riunione ristretta di Meloni con i ministri della Difesa e degli Esteri, Guido Crosetto e Antonio Tajani, affiancata da faccia a faccia paralleli fra i due ministri e le controparti ucraine, hanno segnato un pomeriggio che a Palazzo Chigi non è stato tutto in discesa. E per almeno due o tre motivi: l’Italia appoggia la fretta che stanno imprimendo gli americani alle trattative, lo staff di Meloni non è esente dalle considerazioni che vedono Zelensky indebolito dopo le inchieste sulla corruzione del suo governo, il ruolo del nostro esecutivo, come continua a ribadire la premier è quello di arrivare ad un piano di pace giusto e duraturo, ma tenendo conto più della conduzione americana che di quella europea.



















































Alcuni spin, brandelli di indiscrezioni, arrivano in serata dal partito di Fratelli d’Italia, si propagano al Pd, raccontano di una premier che starebbe svolgendo una sorta di moral suasion su Zelensky anche per conto della Casa Bianca, e questo mentre Zelensky fa l’esatto contrario, chiede alla nostra premier di ammorbidire la posizione di Trump, di cercare di smussare la decisione che sembra avere preso il governo americano, quella di chiudere un piano di pace prima possibile, assecondando solo in parte, per usare una metafora, le ragioni di Kiev.

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In serata arriva persino l’apertura di Zelensky a nuove elezioni, che appare una sfida piuttosto che un passo indietro, e che aggiunge un ennesimo fattore di complessità allo stato dei negoziati. Di sicuro fanno stato le parole chiare, pubbliche, che ieri sono state messe nero su bianco dal ministro degli Esteri ucraino, Andrii Sybiha, che a Palazzo Chigi ha educatamente fatto un sorta di elenco della spesa di ciò che Kiev chiede all’Italia e che finora non ha visto: un ruolo proattivo e più forte sullo sblocco degli asset russi congelati in Belgio, l’uscita dal limbo di una non decisione rispetto al programma Purl, l’acquisto di armi americane che finora ha coinvolto più di 15 Stati della Ue ma non Roma (armi da girare a Kiev, come chiesto dallo stesso Trump), e infine persino il dirottamento di alcune risorse (per l’Italia 15 miliardi di euro) che il programma europeo Safe dedica al rafforzamento delle forze armate degli Stati membri. L’Italia è fra coloro, 4 Stati su 19, che non impiegheranno una quota dei fondi per gli aiuti militari all’Ucraina.

C’è abbastanza carne al fuoco per ritenere che non tutto sia filato liscio, che alcune distanze siano state per la prima volta espresse, da entrambe le parti, in modo netto. Del resto Meloni, almeno per il Pd e il resto delle opposizioni, continua a stare con un piede in due staffe, agganciata agli sforzi europei nel difendere Kiev, anche dagli attacchi diplomatici degli Stati Uniti, ma allo stesso tempo restia a prendere un minimo di distanza dal taglio molto ruvido che Donald Trump sta imprimendo ai negoziati in corso.

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9 dicembre 2025 ( modifica il 10 dicembre 2025 | 00:17)