di
Michela Proietti
L’attore ha festaggiato 85 anni con Pucci e Massimo Boldi. «Sophia Loren? L’ho incontrata da anziana ai David: l’ho salutata, non mi ha filato»
Renato Pozzetto, 85 anni compiuti il 14 luglio.
«Abbiamo festeggiato qui al lago. C’erano i miei figli, i miei nipoti. Sono venuti anche Andrea Pucci e Massimo Boldi: un casino bestiale».
La torta ha fatto il giro dei social.
«Me l’ha fatta il pasticcere della Locanda Pozzetto, aperta con mio fratello: era una casa in malora dove giocavamo a carte. Ora è una trattoria».
Un posticino tranquillo con l’orchestrina, citando il Ragazzo di Campagna?
«C’è una bella vista lago».
Ha fatto un discorso?
«No, abbiamo bevuto, riso, mangiato. Pucci mi ha fatto ridere fino alle lacrime».
Gli sta passando il testimone?
«Il nostro è un umorismo diverso. Ma sa far ridere: ci ha presentati Matteo Forte, il manager del teatro Nazionale e del Lirico».
Come si immaginava di arrivare a questa età?
«Ho passato momenti turbolenti. Due anni fa, in questa villa dove ho festeggiato, sono arrivati a prendermi con l’elicottero: ho avuto un malore serio e al San Raffaele mi hanno salvato».
Ha realizzato i sogni da piccolo?
«Non c’era mica da sognare, la povertà era tanta. Mio padre lavorava in banca, mia madre si occupava di quattro figli. Ogni fine settimana facevano i conti».
Faceva ridere la famiglia?
«Ridere non era la priorità. I parenti ci mandavano dall’America un pacco con scarpe e maglie usate. Con la guerra siamo sfollati a Gemonio».
Avrà pure mostrato il suo talento precoce…
«Tornati a Milano siamo andati a vivere in quelle che si chiamavano case minime, che come lascia immaginare il nome non erano il massimo. Era dalle parti di corso San Gottardo, al capolinea del tram 3. Mi affacciavo sul cortile e urlavo: “Ecco a voi Renato Pozzetto”».
Le hanno mai chiesto di prendere un nome d’arte?
«No. Cochi si chiamava Aurelio, ma per sua madre era Cochi. Io a casa ero Tatone: Tatone Pozzetto non era bello».
Cochi.
«Era sfollato come me a Gemonio. Ci annoiavamo e provavamo a ridere tra noi. La nostra comicità è nata così: lui suonava la chitarra e cantavamo».
A Milano cosa facevate?
«L’unico locale che potevamo permetterci era l’Osteria dell’Oca d’oro, frequentata da molti artisti come Lucio Fontana che ci diceva in milanese: “Voi due dovreste andare a Sanremo” . Poi aggiungeva “ghe pensi mi”».
Ci ha pensato?
«No ma a fianco aprì il Cab64, ci abbiamo incontrato Gaber e Jannacci: la Gallina non è un animale intelligente è nata lì».
E siete arrivati al Derby.
«Un successo, c’era così tanta gente che era stata creata una scala che si alzava e si abbassava dopo la porta d’ingresso: quando la scala saliva, l’entrata non esisteva più».
Jannacci.
«Lo chiamavamo Schizzo perché era strambo: era il mio medico di base. Una volta mi fece una puntura. E dopo avermi curato se ne andò con una risata folle».
Che cosa ha comperato con i primi guadagni?
«Una casa per i miei genitori a Gemonio. Mio padre investì in un terreno ma non aveva i soldi per costruire. Ci abbiamo pensato io e mio fratello: sapevamo quello che avevano fatto per noi».
Nel frattempo si era diplomato da geometra.
«Sì, ho fatto l’esame di abilitazione. Se mi fanno vedere la piantina di una casa ci capisco qualcosa».
La scuola è stata il bar.
«Andavamo da Gattullo, dove avevamo creato un ufficio-facce, per decidere chi poteva far parte della comitiva. Chi non stava ai nostri tempi con l’umorismo o tifava la squadra sbagliata, veniva liquidato: “Ma è passato dall’ufficio facce”?. La cultura da bar, il riscontro della risata: o scoppiava subito o mai più».
Ha raccontato che un cliente al Derby si lamentò: «Ho una fabbrica con mille dipendenti, non sono scemo, ma stasera non ho riso».
«Vero, perché era l’umorismo surreale. Anche al cinema volevano l’umorismo da botteghino. A me piaceva invece il paradosso».
Nella Osteria Semi Vuota lei apre la porta della trattoria e appare San Siro.
«Dentro c’era una signora che mi insultava e l’unico cliente era un tipo del Derby che parlava in milanese stretto. Tutta gente vera».
Il ragazzo di campagna.
«Molte cose le inventavo io. Ho fatto alzare le chiuse delle risaie e mi sono messo in ginocchio per simulare l’allagamento: “ Basta acqua”…».
Poi sono arrivati i film con Edwige Fenech.
«Ci fecero girare una scena d’amore in una vasca piena di schiuma: abbiamo dovuto interrompere per un problema alle luci. Lei è uscita e l’acqua si è abbassata. Sono rimasto solo, nella secca e pure “su di giri”. Il tecnico mi ha detto: “Ah Pozzè, farai anche due lire, ma che vitaccia!”»
L’attrice più bella?
«Un’attrice deve essere brava. Mi piaceva Mariangela Melato, figlia di un vigile urbano. Ballava il rock: andavamo in un posto in Corso Europa».
Sophia Loren?
«L’ho incontrata da anziana ai David. L’ho salutata, non mi ha filato. Era bellissima quando faceva la disperata: veniva da lì e lo sapeva recitare».
Sua moglie Brunella era gelosa del suo lavoro?
«Non credo. Trovai una casa davanti al Colosseo per la famiglia, ma lei è voluta rimanere a Milano per occuparsi dei figli e della madre. Ho fatto il pendolare ai tempi in cui il treno ci metteva una notte ad arrivare».
Un matrimonio felice?
«Molto. Ha avuto pazienza infinita e avrei dovuto darle di più. A volte uscivo di casa e non sapeva se sarei tornato: andavo via per correre».
La velocità è stata la sua passione.
«Ho corso la Parigi Dakar nel 1987: 18 tappe, 8 mila chilometri con Giacomo Vismara. Siamo arrivati quinti. E poi insieme a Stefano Casiraghi e al Principe Alberto abbiamo fatto una gara di off shore».
Cosa vi siete detti?
«Nulla, mica si parla in quelle circostanze».
Oggi che hobby ha?
«Faccio il vino anche se non lo posso bere. Si chiama Liseiret, lo faccio con due amici: il “bastimento” è pilotato da Elio Altare, abilissimo viticoltore, il primo ufficiale è Ferruccio Fazio, ex ministro della salute. Poi c’è il passeggero Renato Pozzetto».
Chi sono i suoi amici?
«Li ho appena citati. Poi Matteo Forte, Massimo Moratti. E Diego Della Valle: abbiamo fatto la Mille Miglia insieme ma a metà strada è venuto un elicottero a prenderlo e mi ha abbandonato per motivi di lavoro. Forse si era rotto!».
Adriano Celentano.
«Qualsiasi cosa ideava aveva successo. Era uno che si faceva i fatti suoi: anche oggi».
Il film della vita?
«Non vado mai al cinema e non guardo la televisione».
Ha mandato a quel paese Gigi Marzullo in diretta.
«Mi ha chiesto: “La vita è più un massaggio ai muscoli della coscienza o la coscienza è più il muscolo trainante della vita”»? Risposta mia : “ma va a ca….”».
I suoi duetti con Frassica.
«Abbiamo portato una mucca a pascolare sul tetto del Bosco Verticale per vendere latte caro come lo champagne ai ricchi condomini».
C’è ancora possibilità per un ragazzo di farsi strada?
«No: mio figlio Giacomo è simpatico e ha la faccia di tolla. Ma ha lasciato perdere».
I ragazzi la fermano?
«Sì, certo. Mi dicono: “Taacc” o “Eh la Madonna!”»
Come è nata «Eh la Madonna»?
«Era una espressione popolare milanese. La dicevo quando un’aspirante attrice mi mostrava il seno dopo che io e Cochi avevamo detto di essere i fratelli Taviani».
Ci crede nell’aldilà?
«No: ho fatto la Comunione perché ci credevano i miei».
E dopo che c’è?
«Niente. E mi dispiace: credere mi avrebbe dato forza».
3 agosto 2025
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